
Il film dell'ormai ultrasettantenne regista francese vive di una armonia
ludica e cordiale dove si mescolano in un intreccio ingarbugliato e tautologico
svariati strati di realtà e finzione. La storia si sviluppa tra
le strade, le case e i palcoscenici di Parigi, dove una compagnia teatrale
italiana mette in scena in lingua originale il dramma pirandelliano Come
tu mi vuoi. Benchè il regista abbia negato una qualche corrispondenza
biunivoca tra la finzione filmica e la meta-finzione teatrale ("La
pièce di Pirandello va avanti per conto suo: qui non c'è
un sistematico gioco di rimandi come in altri film") appare implicito
il rimando ad un sostrato comune su cui soggiacciono l'opera del maestro
siciliano e il film di Rivette: e cioè l'universo dell'indeterminato
e dell'aleatorio, quel luogo informe e inconsistente, dietro le convenzioni
del vivere sociale, dove si dissipano le certezze della identità
e dell'amore. Rivette allestisce una galleria di personaggi generosi nella
loro espressività [anche troppo, come è il caso di Castellito
la cui recitazione in alcune circostanze deborda negli eccessi di una
teatralità basso-latina] delicatamente e gradevolmente grottesca,
avvolti in una alea di rarefazione e straniamento in cui la rappresentazione
filmica si dilata a dismisura [non soltanto in termini di minuti] e le
figure procedono per inerzia nelle quasi tre ore di film totalmente in
balìa dei capricci del caso e dei propri sentimenti, rincorrendo
il disordine e l'indisciplina di una coralità di passioni che si
impongono e si negano senza alcuna logica apparente: Camille guidata da
una arcana ispirazione insegue le tracce del suo ex amante e poi si nega
al suo morboso desiderio di riavviare il loro amore in una nuova e folle
avventura, Ugo si lascia dapprima sedurre dal fascino fresco e sensuale
di Do, ma retrocede davanti alla dichiarazione di lei; assai offuscati
e nebulosi sono i rapporti tra Do e il suo fratellastro Arthur, e tra
quest'ultimo, irriducibile quanto goffo donnaiolo, e Sonia o Camille.
I rapporti tra i personaggi sulla scena appaiono avvicendarsi in un procedimento
alla deriva di casualità e legami labili, che si sfaldano o cambiano
rotta in modo imprevedibile e smaliziato, in una successione articolata
e spontanea, costruita su un registro vivace ed elegante di apparente
improvvisazione. Nella cornice slabrata della narrazione si inserisce
una più o meno evidente attenzione amorevole da parte dell'autore
a mostrare dettagli collaterali e suggestivi dei propri personaggi e delle
loro storie: la macchina da presa si sofferma indiscreta a raccontare
piccoli gesti, smorfie, esibizioni mimiche di corpi che espandono il proprio
campo d'azione scaricando all'esterno le turbolenze indecifrabili dell'universo
interiore. E la narranzione si concede a deviazioni nel surreale, come
nel pittoresco duello tra Ugo e Piero, o nella impostazione di una trama
che nasce dalla prolificazione partenogenetica di reticolati amorosi inverosimilmente
e volutamente artificiosi, che vanno poi a confluire sul palcoscenico
di una sgangherata rappresentazione teatrale nel finale, estrema e definitiva
ibridizzazione di cinema, teatro e vita raccontata dall'arte. Il cinema
di Rivette riconferma il carattere elegante e sottilmente ludico con cui
sa vivisezionare le voragini esistenziali dell'uomo moderno [Heidegger,
su cui studia Pierre, forse non è citato a caso nel film] e la
lucidità con la quale sa predisporre un protocollo narrativo teso
alla destrutturazione degli schemi classici; inoltre, c'è da dire,
un'opera di un maestro del suo calibro come di qualunque altro autore
della sua scuola va accolto sempre con doveroso rispetto, anche se gli
anni sessanta e la Nouvelle Vague francese sono lontani ed è ormai
tempo, forse, di costruire del nuovo.
Voto: 26/30
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