Alla proiezione di La fabbrica di
cioccolato il cinema è pieno di famiglie con bambini ma, considerando
la regia di Tim Burton e l’originale di Roald Dahl, viene spontaneo
domandarsi se quello che si sta per vedere sia veramente un film per
bambini. Le smentite arrivano presto, se non esattamente per la trama almeno
per l’atmosfera creata dal maestro della fiaba inquietante.
Charlie, piccolo sognatore ricco più di valori che di liquidi, desidera
penetrare il mistero che avvolge la mitologica fabbrica di cioccolato
dell’altrettanto mitologico Willy Wonka. L’occasione gli viene regalata
dalla sorte in occasione di un esclusivissimo concorso che permette a cinque
fortunati di visitare lo stabilimento. I compagni di avventura del piccolo
diseredato sono quattro mostruosi concentrati delle nevrosi dei rispettivi
genitori. L’eclettico Mr. Wonka accoglie partecipanti e spettatori con un
coloratissimo e macabro siparietto che conferma la sensazione di
inquietudine che il grigiore dell’atmosfera e la tendenza alla deformazione
dell’inquadratura avevano suggerito sin dalle prime scene.
Non appena i cancelli della fabbrica inghiottiscono bambini ed
accompagnatori si sprofonda in un attraente quanto insidioso inferno
dantesco dove vige una ferrea legge del contrappasso. Fra punizioni divine e
fantasmi di infanzie travagliate aleggia un moralismo mai stucchevole e
sapientemente reso esplicito solo nel messaggio finale. Sebbene i bambini
siano i destinatari privilegiati della giustizia di Willy Wonka è ai
genitori che l’accusa giunge più duramente. Essi, ritratti perfetti della
subdola criminalità di mamma e papà, sono in tutto e per tutto i cattivi
della storia. Il film si delinea come un’estrema riflessione su
responsabilità e colpe di genitori distanti, egoisti, vanitosi, smidollati.La
caratterizzazione dei personaggi risulta ancora più incisiva perché si
prolunga nel loro aspetto, nell’abbigliamento, nel loro luogo di
provenienza. Le tendenze visionarie di Tim Burton riescono nell’intento di
creare un universo visivo regolato da regole proprie e testimone dei due
caratteri trainanti del film: il fascino e l’attrazione inconscia per un
mondo perfetto di dolcezza e spensieratezza e l’impressione spaventosa di
trovarsi nel regno delle bambole assassine. Come a dire che non è tutto oro
quello che luccica.
Se la fantasia immaginifica non manca di affascinare lo spettatore, il ritmo
risulta spesso lento, le sequenze sembrano mancare di un legante. Dopo
l’inquietante punizione riservata al primo malcapitato, il pubblico sa
esattamente che la stessa sorte toccherà anche agli altri piccoli
protagonisti. Tuttavia si trova spesso disorientato nell’assistere a
situazioni che non si generano le une dalle altre ma che, semplicemente, si
susseguono. Forse la causa di queste spaccature è da cercare nei numeri
musicali che accompagnano le tragiche e rocambolesche scomparse dei bambini.
Stilisticamente divertenti, curati, azzeccati, sembrano non amalgamarsi
pienamente nel tessuto narrativo. Altrettanto poco giustificati risultano le
numerose citazioni cinematografiche sparse qua e là. Le coreografie alla
Ester Williams, le teorie evoluzionistiche alla Kubrick, gli omicidi alla
Psycho si fondano solo su
associazioni puramente visive.
Il film, come spesso accade nelle regie di Tim Burton, affascina, diverte,
cattura ma lascia un vago senso di incompletezza. In fondo, nonostante
l’equilibrio mancato, La fabbrica di
cioccolato si fa largamente apprezzare per gli interpreti sempre
all’altezza, per la trama incisiva e per le irresistibili scenografie.
Essere ammessi in un mondo parallelo è forse proprio quello di cui si va
alla ricerca quando si sceglie questo regista.
Voto: 25/30
08:10:2005 |