
Dopo quella di Pasolini (PASOLINI, UN DELITTO ITALIANO, 1995), Marco Tullio
Giordana ha scelto di trasporre anche l'autentica vicenda di Peppino Impastato,
il giovane freelance siciliano ucciso perché - proprio negli anni in cui
Ligabue apriva Radiofreccia - dai microfoni di un'emittente amatoriale
si prendeva gioco del "diritto" mafioso a Cinisi e del padrino locale
Tano Badalamenti, suo zio.
Parlare serenamente de I CENTO PASSI necessita di una premessa, perché
è difficile non chiedersi se abbia ancora senso - alla luce delle mille
piovre e di tutto un cinema "mafioso" che parte da Francesco Rosi per
giungere, attraverso Damiano Damiani, a Ricky Tognazzi - mettere in piedi
simili operazioni; e questo indipendentemente dall'effettiva qualità dei
singoli film (e I CENTO PASSI è un buon film). In altre parole, pur nell'assoluto
rispetto per chi tali vicende ha vissuto, il rischio del dejà vu e della
mancanza di interesse - persino nel corso della visione stessa, se non
ancor prima della distribuzione in sala - ci sembra alto. E poi c'è la
questione della radice storica e dell'elevato valore di compartecipazione
che ne consegue, il cui peso, nel formulare un giudizio estetico, si manifesta,
per soggezione, in tutta la sua invadenza. Ecco perché nel censurare film
come LA VITA E' BELLA si rischia l'impopolarità, ed ecco una delle spiegazioni
dell'imprevisto successo post-veneziano del lavoro di Giordana. Se è dunque
innegabile - nonché ammirevole - che per merito del film quello di Impastato
sia oggi più di un nome, e che anche l'insabbiamento iniziale della matrice
criminale all'origine della sua morte sia senz'altro meno efficace, ciò
non cancella le stonature di cui abbiamo parlato: un non trascurabile
fardello con il quale bisognerà, prima o poi, venire a patti, specie in
conseguenza del molto dibattere sui limitati orizzonti del cinema italiano,
intesi anche in termini di effettiva esportabilità.
Ciò detto, il più sicuro punto di forza de I CENTO PASSI è l'inedita angolazione
attraverso la quale Giordana ha riletto uno dei temi-simbolo degli anni
Settanta/Settanta: il conflitto generazionale. Gli scontri tra Peppino
e il padre sono infatti diretta conseguenza della ribellione del giovane
nei confronti dello status quo mafioso, che l'uomo invece accetta come
necessario. Il desiderio di libertà va qui a scontrarsi però con un sistema
troppo rigido per tollerare l'esistenza del proprio contrario: eliminato
il cancro, tutto torna alle origini.
Non ci sono picchi di stile nella pellicola di Giordana, ma domina un
cast in cui il volto di Tony Sperandeo (non lontano dal suo ruolo-tipo
ma sempre bravo) si accompagna a scoperte come Luigi Lo Cascio (Peppino)
e Luigi Maria Burruano (il padre), davvero notevoli per quanto, come in
poesia, l'adozione del linguaggio dialettale favorisca non poco la forza
dell'operazione.
Voto: 27/30
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