
Caterina va in città, è il nuovo film del regista Virzì, che sfrutta
ancora un volta il tema del mondo giovanile, in rapporto a quello degli
adulti, mettendo in scena un piccolo “gruppo di famiglia in un interno”, ma
soprattutto in esterno!. I luoghi comuni, sembrano prendere il sopravvento,
ma risulta infine, un espediente per mettere in risalto un modo di essere,
che di generazione in generazione, nonostante le aderenze politiche, si
perpetua. Atteggiamenti egoistici, alzano muri invalicabili tra classi
sociali differenti, sempre più differenti e tutt’altro che allineate ad un
XXI° secolo che si vuole bandiera dell’uguaglianza. Caterina (Alice Teghil),
è l’elemento scevro dalla realtà, incontaminato-vittima, suo malgrado, si
trova a dover fare i conti con una realtà sociale che non le appartiene.
Alice, è figlia unica, e da un piccolo paese sulla costa tirrenica,
Montaldo, si trasferisce con i genitori Giancarlo e Agata Iacovoni, nella
casa romana dei nonni deceduti. Il padre (Sergio Castellitto), insegnante, è
un uomo frustrato, scontento di sé e del mondo che lo circonda. La filosofia
che lo muove, è per certi versi veritiera, oggettiva, ma esagera nel
manifestare il proprio risentimento, la propria rivoluzione personale,
passando nevroticamente dalla parte del torto, nonché per squilibrato agli
occhi della società e della famiglia. Virzì, mette in scena un bel ventaglio
di caratterizzazioni, una sorta di caleidoscopio sull’Italia dei nostri
giorni, che a tratti pare un girone dantesco. L’arma vincente del regista,
rimane, quale caratteristica peculiare del suo cinema, l’umorismo
indagatorio delle psicologie, dei comportamenti umani alla luce
dell’attualità, e di cliché persistenti: denaro-potere.
La giovane protagonista, ha cercato con tutte le sue energie adolescenziali
di integrarsi con gli indigeni del luogo, con le aspirazioni paterne, ancora
di là da venire, ed una madre (Margherita Buy), vittima di egoismi
famigliari, che per non schierarsi, né mutare l’ordine degli addendi,
preferisce celarsi dietro la maschera della stupidità e dell’estraneità
apparente.
Giovani rampolli di destra e di sinistra, sfilano davanti alla macchina da
presa, con i loro modi di vivere, che paiono dettami inculcati, assiomi
assunti come tali, non verificati, in quanto prescindono dalla natura
dall’ideologia stessa. Si odono in bocca ad adolescenti discorsi ed
atteggiamenti, non adeguati alla loro età, o quanto meno, ciò che disturba,
è il perpetrarsi indefessamente di atteggiamenti di una limitatezza
agghiacciante, anche nelle nuove generazioni. La conseguente domanda che
nasce spontanea, è: non cambia mai nulla in questo mondo?
Il ceto alto, per il regista, è sinonimo di debosciamento, di giovani le cui
menti, sono manipolate dai genitori, persino nella scelta di un amore puro
ed adolescenziale; il quadro è farcito da egoismi, nevrosi, manie di
protagonismo e protezionismi di classe. Dopo il film chicca (che ha subito
problemi di distribuzione) My name
is Tanino, Virzì ripropone una commedia graffiante, ben architettata
nei tempi e nei modi, in una chiave parossistica, metaforica, in cui la
grande città diviene simbolo, sì, della tradizione, ma anche del divario,
delle eccedenze negative. La capitale d’Italia appare qui una città
vacillante - cornucopia contenente negatività socio-comportamentali: città
in cui la presenza dello straniero (quale si trova ad essere Caterina
giungendo a Roma, così come lo è il vicino di casa australiano), diventa
stimolo per riappropriarsi della propria identità e purezza.
Sito ufficiale
Voto: 27/30
18.11.2003
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