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Il Curioso caso di Benjamin Button di David Fincher
con Brad Pitt, Cate
Blanchett |
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MIGLIOR SCENOGRAFIA |
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15/30
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LO STRANO CASO DI DAVID FINCHER che, questa volta, non ce la fa
Le aspettative erano alte, tutti col fiato sospeso, per vedere un Brad Pitt decrepito che con gli anni ringiovanisce, fino a diventare un neonato che si spegne in culla: attore e regista sono una garanzia (il sodalizio Pitt - Fincher ha dato ottimi risultati), l’idea è buona, due Major di prim’ordine, la firma di Eric Roth alla sceneggiatura, tre ore di spettacolo, la candidatura a 13 oscar. Potremmo dire che bastava, per comprare il biglietto, il primo giorno di uscita in sala. E invece Fincher non ce la fa. La pellicola lascia decisamente perplessi. Sbaglia. Sbaglia nel “taglio”, nello “spirito”, nel “respiro”, e alla fine smarrisce completamente il senso. Il racconto di Scott Fitgerald in realtà, mostrava la via: uno stile asciutto ed essenziale, ironico, a tratti grottesco, nel segno della tradizione surrealista, che come insegna il buon Kafka deve rimanere dentro una salda cornice di iperrealtà, altrimenti non funziona: Gregor non si chiede perché è diventato un insetto, sono le regole del gioco, eppure l’autore delle Metamorfosi muove la riflessione, attiva l’emozione fonda, senza sfiorare le sfere della retorica, del sentimentalismo, del dramma esasperato. Era una chiave che poteva portare a qualcosa di buono, di riuscito, nonostante la china pericolosissima del tema. E questo non per riproporre la solita querelle sulla “traduzione” cinematografica di un prodotto letterario, ma per una mera questione di “credibilità” del personaggio, che rimane avvolto, per tutto il film, dentro un alone sbiadito e freddo. Viene in mente “Profumo”, la storia di un uomo dalle doti straordinarie (un olfatto acutissimo), che, nel film di Tom Tykwer, conquista una “peso”, proprio grazie al taglio stilistico dell’autore, che posiziona il personaggio dentro una convincente fiaba della surrealtà. Se si sceglieva il racconto realistico, indagando la dimensione psicologica di questa creatura mostruosa, s’intraprendeva un sentiero decisamente impervio, ma, va detto, assai più coraggioso: il tentativo di addentrarsi nei misteri oscuri dell’esistenza, la nascita, l’invecchiamento, la morte, avrebbe forse dato un risultato imperfetto, ma onesto. Ma allora chi è Benjamin Button? La storia di un destino crudele, sì, ma forse non è questo che lo rende interessante. La domanda giusta era: che cos’è Benjamin Button? cosa può rappresentare? era questo il nodo del discorso: una parabola, un simbolo, una finestra dalla quale guardare, per riflettere sul significato di un ciclo che porta con sé misteri inavvicinabili. Di “Elephant man” ne abbiamo visti tanti, conosciamo le loro storie infelici, la domanda giusta era cosa dà e cosa toglie un’esistenza che corre sul filo della vita nella direzione opposta? ecco, il cuore pulsante, il battito primitivo, il ponte che ci avrebbe affezionato al personaggio. Di materia ce n’era, anche troppa, il segreto stava nel maneggiarla con umiltà e precisione, senza la pretesa tipicamente “americana” di spiegare tutto, di mostrare la storia sotto una lente caleidoscopica, di rincorrere tutte le diramazioni possibili di un intreccio che si sfilaccia col procedere delle tre, faticosissime, ore. C’è qualcosa di arrogante in questo film, di terribilmente superficiale, qualcosa che disturba anche gli spettatori meno esigenti: la storia è un susseguirsi di sintesi posticce, non sfiora la dimensione della metonimia o della metafora, non si ha neanche il tempo emotivo, di soffermarsi, di entrare in una riflessione profonda. Risultato: un effetto straniante, falso, e francamente ingenuo. Nessuno se lo aspettava, da un regista che ha viaggiato per anni, sul largo consenso di critica e pubblico. La ragione sta nella mescolanza caotica dei registri, che costringe chi guarda a seguire una regia prolissa e disordinata. Lo spettatore non viene “ancorato” perché la narrazione non trova un alveo, un solco dove scorrere e si sposta continuamente: ora è dramma, ora è commedia, ora insegue un’onda surrealista, ora si trasforma in fiaba. E non si tratta, purtroppo, di una cifra sofisticata (pensiamo a certo film spagnolo), capace di mescolare sapientemente gli “ingredienti”, qui i registri sono come “giustapposti”: l’omuncolo che a cinquantanni si lascia andare per la prima volta ai piaceri del bordello, alla vita dura del marinaio, ha poco a che vedere con il Brad Pitt trentenne di qualche ora dopo, che sventola in moto sulle strade sterrate, il Benjamin adolescente non si lega all’ultraottantenne cresciuto in un ospizio da una madre nera. Il protagonista è figurina bidimensionale, e la sua battuta: “Caroline aveva bisogno di un padre, non di un fotomodello” riassume ed esemplifica il deragliamento di tutto l’insieme. Il dramma, appena accennato all’inizio, diventa un dozzinale melò, l’intreccio annega in un patetismo nauseante, in un sentimentalismo artificioso, che il pubblico “colto”, accoglie con un sorriso trattenuto. Insomma, non c’è un taglio originale, ma non c’è nemmeno uno spirito autenticamente drammatico. L’America, davanti al mistero, si appoggia alla favoletta, “chiude il pacchetto” e mette la firma: lo si vede, dagli innesti comici che suonano stonati, dagli elementi surreali buttati là, come la corona di fiori da cui esce il colibrì. La trovata vuole essere un simbolo? sì, lo abbiamo capito tutti. Nemmeno lo sforzo di renderlo sottile, sotterraneo, accennato. Il simbolo qui, è sbattuto in faccia allo spettatore, e intanto la storia d’amore tra la Bella e la Bestia fagocita il resto, inseguendo un respiro romantico che mal si sposa con le premesse del racconto: la sequenza dove i due fanno l’amore come due giovani e sani neosposini, è una delle tante cadute raggelanti. Anche la costruzione del racconto in medias res non convince, perché l’intreccio giocato su passato e presente, rallenta e disperde, non crea un doppio filo prolifico: la figlia che legge il diario alla madre anziana in punta di morte, è un trampolino superfluo, per non parlare dell’ennesima “fuga” cucita intorno alla storia, l’Uragano Kathrina, che lascia semplicemente interdetti. La sceneggiatura, che poteva essere un intelligente elemento di raccordo, non seduce, anzi, si fa ridondante e didascalica e ha la pretesa di pilotare i sentimenti del pubblico con parole prive di vibrazione emotiva. Questo film non ha un’anima: tre ore che sembrano sei, dove si ha l’impressione di partecipare a diramazioni narrative inutili, poco pregnanti oltre che largamente prevedibili. Si assiste solo alla “smania” di aprire percorsi, di apporre un fiocco su ogni segmento, scivolando inevitabilmente in una fiaba mal riuscita, dove lo spettatore è messo nella condizione di dover attraversare grossolane forzature, con una buona dose di fantasia personale: il vecchio padre malato, che ritorna dopo anni, per lasciare ad un figlio mostruoso (che immaginava già morto) la sua fabbrica di bottoni è un altro pugno nello stomaco. Viene da dire che Tim Burton avrebbe fatto di meglio. Ma cos’è l’amore per un uomo che arriva a trent’anni, dopo essere passato per gli ottanta? Non lo abbiamo capito, né col sorriso distante e intelligente, né con un moto di autentica commozione. Quello che sappiamo è che il viso d’angelo di Brad Pitt che bacia la ballerina dei suoi sogni non corrisponde esattamente alle nostre proiezioni. Dispiace dirlo, sette euro e cinquanta per vedere il bel faccino di Siloh Jolie - Pitt, bastava un tabloid.
18:02:2009 |
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The Curious Case
of Benjamin Button
Warner
Bros |
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