
Nuovo film di Dario Argento, nuova delusione.
Questa volta all’assassino piace il gioco d’azzardo: rapisce donne nei
dintorni di Roma, poi contatta la polizia locale e la sfida a videopoker
(ovviamente in rete) mettendo in palio la vita delle ragazze sequestrate; il
suo vero bersaglio sembra essere una giovane poliziotta con cui ha forse
qualche conto in sospeso, ma ci penserà un tenace ispettore in forza
all’ambasciata britannica a rendergli la vita difficile. Un colpo al cerchio
e uno alla botte nella scelta degli interpreti (da un lato ci sono la Rocca,
Santamaria e Silvio Muccino, nomi cari al grande pubblico, dall’altro Liam
Cunningham, noto agli appassionati del cinema horror per l’apparizione in
DOG SOLDIERS, ancora inedito in Italia) non salvano dal definitivo tracollo
un Argento ormai stanco e svogliato: questa volta il consueto intreccio a
base di omicidi, innocenti ingiustamente sospettati e false piste dietro cui
gli investigatori si affannano senza esito è più stucchevole del solito, e
fa quasi tenerezza l’ostinazione della censura nel vietare ai minori di
quattordici anni un film che potrebbe tranquillamente passare in televisione
a qualsiasi ora senza bisogno di tagli di sorta; è sprecato, in tal senso,
l’apporto del fido Sergio Stivaletti (addirittura citato nei titoli di
testa), i cui effetti speciali occupano sì e no il due per cento dell’intera
pellicola, facendo amaramente rimpiangere non soltanto le coreografie
sanguinarie alle quali eravamo abituati ai bei tempi, ma addirittura quelle
di opere in tono minore come l’ultimo NON HO SONNO, ed è tutto dire.
Davvero poca cosa anche le musiche di Claudio
Simonetti, semplicemente inconsistenti, per non parlare della fotografia di
Benoit Debie, che anche in un filmetto mediocre come IRREVERSIBLE seppe fare
miglior figura (ma soprattutto che bisogno c’era di scomodare un tecnico
francese, quando l’operatore di una qualsiasi fiction italiana tipo
DISTRETTO DI POLIZIA sarebbe stato in grado di ricreare la stessa
atmosfera?).
La triste verità è che una volta le ossessioni misogine di Dario Argento
erano la sublime anima di gioielli come TENEBRE, capolavori pressochè
indiscussi che reclutavano intere legioni di nuovi amanti del cinema, mentre
oggi, spogliate dell’entusiasmo e del fascino visivo che le ammantava
all’epoca, non sono niente altro che l’alibi, debole ed imbarazzante, per
lavori messi assieme con lo sputo, forse nel disperato intento di portare a
casa almeno la pagnotta, ma che rischiano più che altro di allontanare dalle
sale, e non solo, nuovi potenziali appassionati. Ai fan più
irriducibili di Argento, sempre pronti ad incolpare unicamente l’abituale
cosceneggiatore Franco Ferrini per ogni nuovo fallimento, meglio ricordare
che furono rispettivamente T.E.D. Klein e Gerard Brach ad affiancare il
regista in occasione di TRAUMA e IL FANTASMA DELL’ OPERA, e malgrado ciò i
risultati non cambiarono molto - a testimonianza del fatto che i motivi di
una tale decadenza artistica vanno evidentemente ricercati altrove. Ma l’ex
“maestro del thrilling”, ostentando ormai in ogni circostanza un patetico
disprezzo nei confronti della critica, sembra più che mai intenzionato a
proseguire imperterrito sulla propria strada, e, nonostante il giallo che
avrebbe dovuto precedere IL CARTAIO sia ormai definitivamente naufragato
(NEL BUIO, altrimenti noto come OCCHIALI NERI, si arenò infatti in fase di
produzione a causa delle traversie economiche di Vittorio Cecchi Gori), ha
annunciato che ne realizzerà uno nuovo entro tre anni, anche se non prima
comunque di avere girato un horror (provvisoriamente intitolato LA TERZA
MADRE) per completare finalmente la trilogia esoterica iniziata con SUSPIRIA
e INFERNO. Un progetto, quest’ultimo, che appare francamente in contrasto
con le attuali capacità di Argento, autore ormai privo dell’estro visionario
che lo aveva così ben contraddistinto sino agli anni Ottanta, sebbene ancora
perfettamente in grado di padroneggiare il mezzo cinematografico da un punto
di vista prettamente tecnico; perché allora non seguire l’esempio di
Lamberto Bava e Michele Soavi, suoi discepoli ai bei tempi, che già da
parecchi anni si sono rassegnati a dirigere dignitose fiction televisive per
le reti Mediaset? Alla soglia dei sessantacinque anni potrebbe farlo senza
neppure il timore di perdere la faccia; un rischio che correrebbe invece con
certezza nel caso, più probabile, che abbia intenzione di intestardirsi
ulteriormente nel produrre materiale destinato al grande schermo.
Voto: N.C.
04.01.2004
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