
La parola d'ordine del cinema italiano deve essere: ritrovare energie
fuori dai canali convenzionali; battere le strade alternative e lontane
dei piccoli concorsi e dei festival di cortometraggi; cercare talenti
"regionali", fuori dalla capitale.
Alcuni mesi fa, durante una trasmissione televisiva organizzata per sostenere
l'uscita in sala di THE BLAIR WITCH PROJECT, ci fu un breve dibattito,
cui partecipavano i due giovani autori americani e (in ragione dei comuni
budget ridotti) Alessandro Piva. L'impressione fu quella di due realtà
antitetiche, costruite su presupposti diversissimi: l'una, che si serviva
di Internet per diffondere a livello planetario una piccola, geniale intuizione;
l'altra, che partiva e rimaneva in ambito locale (addirittura la città
di Bari, Italia). Ma entrambe si tenevano ben stretta l'idea, la volontà
strenua, quasi carbonara, di proporre un'idea combattiva di cinema decentrato,
"indipendente" da tutto e tutti.
Il pericolo, semmai, è che il caso-CAPAGIRA (come anche il caso-BLAIR
WITCH PROJECT) sia stato tale anche per una serie di assolute particolarità
extra-narrative - laddove, sia chiaro, non mancano qualità nel modo di
raccontare - come la scelta del dialetto pugliese, che ha decretato il
successo regionale della pellicola. Il sistema produttivo nazionale, ora,
dovrebbe lavorare per evitare che, una volta fatto il salto verso i grandi
budget, il fortino del cinema libero non venga facilmente conquistato
e abbattuto.
Non è un caso che i film concepiti al Sud, pongano quasi sempre al proprio
centro la rappresentazione collettiva di una comunità dolente (Ciprì e
Maresco, Torre): arroccata, anch'essa, entro un fortino "democratico"
all'interno del quale, per essere di più e più forti, accogliere solo
quelli che sono ancora più deboli, come gli albanesi appena traghettati,
scena iniziale. O come il Dracula dei fratelli Manetti. In questo si differenzia
molto chiaramente da una produzione nordica dove, anche quando si tratteggiano
sofferenze e lotte di gruppo, in realtà è il dramma privato ad emergere
(si veda l'opera di Mimmo Calopresti, calabrese di Torino). Ecco quindi
un cinema di situazioni, piuttosto che di intreccio, dove la coralità
d'insieme interviene a correggere i difetti della storia, senza peraltro
impedire la definizione di personaggi a tutto tondo, garantiti dalla eccezionale
qualità interpretativa di ogni attore nato sotto una certa latitudine
(andatevi a vedere, al proposito, I CENTO PASSI).
Tutto ciò vale anche per LA CAPAGIRA: la consegna di un certo quantitativo
di cocaina da parte di un albanese, diventa un'odissea per l'inettitudine
della manovalanza bassa del crimine barese. Due "diroccati" addetti alla
ricerca del panetto appena calato da un treno in corsa, si perdono nell'indagine
ostinata della loro pigra nullità, tra dispute per lo spinello d'ordinanza
e difesa di una vantata virilità ormai tutta virtuale, che fa a meno della
componente donna (quasi tutti uomini, nel film, alla maniera di Cinico
TV, e le rare presenze femminili battono la strada o sono mogli-tappezzeria).
Dalla cantante della TV privata, alla spacciatrice coatta, è tutto un
rosario di santini al contrario, di icone-trash del desiderio frustrato.
Il lavoro della vita, intanto, si svolge nella attesa immobile del passare
del tempo, dove è fatica persino fare le dosi -con la scheda telefonica-
e ci si diletta con le suonerie del cellulare. La materia umana inerte,
devitalizzata, che arreda di sé il fondo di un bar usato a mo' di copertura
per piccoli affari (ma alla fine è solo spaccio di sigarette, poiché sfiga
e inettitudine si accaniscono contro tutti), non aspira a niente, nemmeno
all'esibizione del male o della violenza. L'intercambiabilità dei comportamenti
e dei ruoli, è frutto del disincanto. L'appuntato che improvvisa un blitz
nel bar, finisce a bere birra col delinquente, e ogni disputa abortisce
in reiterate rinunce alla violenza, che non ci rassicurano in nessun modo
sulla buona salute sociale delle situazioni analizzate. In ben altro cinema
(GHOST DOG, ma anche PULP FICTION), il sangue scorre anche in presenza
della dolente ironia con cui vengono tratteggiati personaggi e contesti
di delinquenza marginale, mentre qui ci si ferma sempre un attimo prima:
occorrerebbe capire se per scelta personale o per fedeltà, diciamo così,
di cronaca. E' veramente questa la realtà? O è l'autore che si frappone
metaforicamente tra spari e vittime designate (che possono svenire ma
non muoiono) ? Forse non è poi così importante, perché LA CAPAGIRA è comunque
un film riuscito, dotato tra l'altro di quell'appeal sempre garantito
dal ricorso al dialetto: eppure la risposta vorremmo conoscerla. O dobbiamo
pensare all'opera di Torre, Ciprì e Maresco e, da oggi, Piva, come un
prodotto unitario, compatto e coerente (certo non dal punto di vista degli
esiti stilistici: surreali e kitsch lì, realistici e grotteschi qui),
votato a ribadire l'inscindibilità di dramma umano e feroce autoironia
dell'animo di chi nasce e vive al Sud.
La regia è asciutta, priva di quel compiacimento citazionistico tipico
degli esordi (o limitato al minimo necessario) e dove solo la durata delle
scene di raccordo risulta un po' eccessiva, come nel caso delle corse
in moto per le vie di Bari e della sua periferia. Cinema essenziale, sporco
ed economico, ma in attesa di diventare altro, in presenza di altri budget
e di una sicurezza stilistica ancora maggiore.
Voto: 26/30
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