
E’ un film meraviglioso e dolente quello con cui Silvio Soldini si cimenta
dopo il successo internazionale del suo PANE E TULIPANI. Dolente come
le passioni che lo scuotono sin dalle radici ad ogni inquadratura, meraviglioso
come gli occhi del protagonista, capaci di velarsi delle mille sfumature
di un’anima divisa in due, così come di guardare alle cose del mondo con
la nettezza di un filtro. Dolente come la musica del violoncello che accompagna
i giorni senza senso del giovane operaio che vive della povera semplicità
dei suoi sogni e della sua poesia, meraviglioso come anche la quotidianità
può essere se vissuta accanto alla persona che ci ama e ci completa. Tobias,
nato in un villaggio senza nome, in un Paese senza importanza, sradicato
dalla propria infanzia di dolore ed umiliazione e ripiantato in un mondo
nuovo con un nome falso fatto degli avanzi della sua fanciullezza ed un
lavoro estenuante in fabbrica, luogo ideale di alienazione in cui perdere
la identità e passato, ripete da anni gli stessi gesti in una catena di
montaggio che produce semilavorati e frustrazione, in una realtà di sperdimento
alle soglie della pazzia.. Tobias passa i suoi giorni in estenuante ripetitività
e le sere scrivendo bellissime poesie nel suo rifugio spoglio e freddo
ma tuttavia sicuro perché suo, traducendo in parole e versi i propri incubi,
i propri profondi pensieri, cercando quel contatto con la natura che risulta
così importante per tutto il film, costruito per celebrare l’unità dell’uomo
con la terra, l’affinità delle stagioni dell’anno e di quelle del cuore,
dei tempi della natura e di quelli degli uomini, la confusione tra corpi
di carne e gocce d’acqua, mucchi di polvere e fiocchi di neve. Tobias,
infatti, in un’evocativa scena di fuga, in preda all’allucinazione della
febbre, si getta nel bosco ghiacciato e descrive la propria morte uscendo
dal corpo abbandonato in terra che diventa parte di quella natura che
per quanto matrigna non sarà mai più crudele dell’indifferenza della città
senza volto e senza tempo in cui si consumano giorni sempre uguali. La
storia, tratta con fedeltà quasi ossequiosa da un romanzo breve di Agota
Kristof, scrittrice di origini ungheresi espatriata in Svizzera e che
scrive in francese, parla con durezza e sincerità di una condizione di
straniamento che non può lasciare indifferenti per violenza e passionalità.
Si narra di un’ossessione.. anzi delle molte ossessioni che si intrecciano
tra loro a tessere l’armatura grazie alla quale Tobias sopravvive ai colpi
di un fato da tragedia greca e riesce a sopportare "la sua corsa idiota
verso il nulla": non facile convivere con l’idea che la propria madre
fosse la puttana del villaggio, col tentato patricidio, con la scelta
di un destino di esilio in una terra straniera e lontana, con l’amore
incestuoso per la sorellastra perduta e ritrovata al termine di un’attesa
fatta di rinunce e sospensione. Tobias cerca la sua donna ideale "sconosciuta,
bella, irreale", la sua Line con cui confrontare tutte le donne con cui
divide i pochi attimi di abbandono ed è rapito dal sogno che renderebbe
la sua vita qualcosa di diverso da un’incognita di cui il destino dispone
casualmente. Finchè un giorno arriva davvero Line: il fato mette sulla
strada dello scrittore-che-aspetta quella che fu per sorte la sua compagna
di classe, quella che fu per incidente sua sorella, quella che è e sarà
per sempre, per la forza dell’amore, la sua metà. Tobias la segue, la
spia, la scruta, la protegge e percorre continuamente il suo corpo con
uno sguardo morbido come una carezza.. Inizia una storia d’amore dapprima
inespressa, una sfida che sembra perduta in origine che, invece, si fa
vieppiù meno impossibile, più calda e vicina giorno dopo giorno man mano
che le affinità elettive si risvegliano e l’amore ridimensiona gli ostacoli
che si frappongono tra la realtà e la dimensione onirica dei desideri,
annichilendo l’assorbenza del legame di sangue, appiattendo le differenze
di classe sociale, di condizione economica e culturale esistenti tra il
povero e disperato Tobias e la colta e borghese Line. Soldini si innamora
del libro della Kristof dai tempi dell’uscita nelle sale de "Le acrobate"
nel 1997 e decide immediatamente, con la collaborazione della preziosissima
Doriana Leondeff, di portarlo sul grande schermo. Qualcosa, però, non
gli consente di portare a compimento il progetto. Dirà egli stesso: "sentivo
l’esigenza di buttarmi in qualcosa di più leggero, giocoso (..)". Nasce
PANE E TULIPANI e l’energia che ne consegue rinvigorisce la sua passione
verso territori narrativi nuovi e lo spinge a portare a termine, con enorme
passionalità e trasporto, una nuova sceneggiatura in poco più di un mese.
Ciò che, del libro della Kristof, attrae Soldini è lo stile duro ed essenziale
di un’autrice che produce romanzi molto poco femminili tanto sono diretti
ed affilati. L’amore per la trama viene dopo.. scaturisce dal lasciarsi
vincere dall’epica figura del protagonista, dal cedere senza difese alla
sua ossessione, dal condividere con trasporto insaziabile la sua disperazione
e la sua battaglia.. Tobias è uno scrittore.. si annulla nella sua condizione
di esule e sopravvissuto perché "è diventando assolutamente niente che
si può diventare scrittori", è l’alter ego della Kristof, la mente superiore
intrappolata in un destino di povertà definito dalla mera sopravvivenza
e che cerca di ricongiungere due metà che si sono perse.. Ciò che Soldini
e la Leondeff vogliono e riescono a fare è mantenere salda la lettera
del testo per la ferma volontà di non scivolare in un’indesiderata dimensione
naturalistica alleggerendo, per semplice sottrazione, i dialoghi così
come pensati e resi dalla Kristof e conservando quella ricchezza evocativa
enorme suscitata dalle sue semplici parole, dirette come frecce al bersaglio.
Soldini sapeva di aver bisogno di un interprete maschile eccezionale che
fosse capace di catalizzare su di sé in modo credibile le emozioni che
il personaggio di Tobias inevitabilmente comunica e lo trova dopo lunghe
ricerche in molti paesi dell’Est, proprio in Francia: in un attore ungherese
di raro talento ed intensità emigrato da dieci anni a Parigi. Ivan Franek
ha la forza e la fragilità di Tobias, condividendone la condizione di
emigrato all’Ovest, ha la voce profonda e vibrante (impedibile la versione
in lingua originale) dello scrittore che materializza le sue fantasie
fatte di boschi, musiche, animali selvaggi e liberi.. ha gli occhi intelligenti
ed indagatori dell’innamorato che vive per guardare la donna che desidera
più della stessa aria che respira.. è lui Tobias e mai scelta fu più felice.
L’intera pellicola, insomma, è un sorprendente piccolo capolavoro di complicità
e struggimento, perfetto dal primo fotogramma sino all’ultima sequenza,
capace di lasciarci senza respiro nel bacio cinematografico più bello
degli ultimi anni e di concederci un epilogo di speranza nel momento in
cui il regista sceglie di apportare l’unica significativa modifica al
testo della Kristof, discostandosi dal finale del libro "perché troppo
punitivo" e concedendo a Tobias il privilegio di vivere il suo sogno nella
realtà. Finalmente, dunque, un film che dà piacere agli occhi, al cuore
ed al cervello, che ci rende orgogliosi della profondità di un certo cinema
italiano e consente di guardare con ottimismo al prossimo Festival di
Berlino cui BRUCIO NEL VENTO parteciperà tra i titoli in concorso.
Voto: 29/30
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