
Kitano, nel contesto mondiale del cinema, è assolutamente senza uguali.
Sia come personaggio che come attore: con lo pseudonimo di Beat Takeshi,
Kitano ha infatti preso parte non solo alle proprie opere, ma anche a
film di cassetta come JOHNNY MNEMONIC (1995) di Robert Longo, pellicole
d'essai (l'ultima è GOHATTO di Nagisa Oshima), nonché a produzioni-spazzatura
per la televisione nipponica (note anche in Italia come "Mai dire Banzai!").
In Giappone, poi, il suo stile comico è popolarissimo. Oltre a ciò, comunque,
Kitano è - almeno a nostro avviso - anche il più grande ed originale tra
gli autori cinematografici la cui maturità coincide pressappoco con l'ultimo
decennio; un regista che, per limitarci al caso di HANA-BI (1997) - tacendo
di SONATINE (1993) - ha saputo immaginare e rendere concreta un'originale
estetica della violenza quando era ancora di grido la rivoluzione PULP
FICTION.
Le vicende narrate da Kitano sono praticamente tutte variazioni - con
l'eccezione dell'assurdo GETTING ANY? (1994), visto in Italia pochi anni
orsono grazie alla personale itinerante dedicata al regista dal Bergamo
Film Meeting - sulla struttura dello "yakuza-movie", uno dei generi cinematografici
più popolari in Giappone; nonostante ciò ognuna di esse si distingue per
uno spiccato indice di innovazione visiva e narrativa. Il citato HANA-BI
rimane tutt'oggi un grandioso esempio di equilibrio tra esplosioni improvvise
di violenza sfrenata, pause di ironia naif e fasi di chiara poesia per
lo schermo (l'utilizzo dei quadri dipinti dallo stesso Kitano). Le due
ore de L'ESTATE DI KIKUJIRO (1999) corrono invece senza incertezze sul
baratro del comodo sentimentalismo e della comicità più facile con esiti
quanto meno rari. E ora con BROTHER - a Venezia fuori concorso, per esplicita
scelta dell'autore - Kitano ha portato il suo gangster della Yakuza negli
USA, in una città che identifichiamo con Los Angeles solo grazie alle
didascalie, tanto è lontana dallo stereotipo hollywoodiano. Non per questo
Yamamoto (naturalmente Beat Takeshi), dimentica i suoi principi di guerriero,
prossimi a quelli di un samurai. Prima di tutto la fedeltà al fratello
yakuza, e poi il sacrificio di sé in ragione della causa, qualsiasi essa
sia (qui si tratta di prendere possesso del locale mercato della droga).
Da queste premesse Kitano ha scelto di approfondire ulteriormente la sua
poetica della violenza; una violenza che qui è difatti letta non unicamente
nell'accezione attiva, di aggressione verso il prossimo, ma pure in quanto
equo e necessario strumento di autopunizione. Il suicidio, allora - diversamente
da quanto accade in HANA-BI - non può avere carattere liberatorio: è all'opposto
saturo di una brutalità ricercata e apertamente esibita in segno di pentimento.
Ecco perché l'impietosa messa in scena di un harakiri - certamente tra
le cose più brutali mai viste in un film non horror - non va vista come
mero e gratuito spettacolo barbaro. Per un gangster della Yakuza scegliere
la violenza è un qualcosa di ineluttabile, da accettare e così - come
in un noir di Melville o, di recente, in GHOST DOG di Jarmush - anche
la morte per mano altrui è solo uno degli eventi possibili, anzi pressoché
necessario, del quale è casomai concesso scegliere modo e momento.
Se KIKUJIRO puntava molto su di una comicità quasi slapstick, la leggerezza
che questo garantiva pare assente in BROTHER: ciò, tuttavia, non è completamente
esatto. Pur senza tenere conto di momenti il cui cinismo spinge la comicità
a livelli decisamente alti (i "suggerimenti" di Kitano ad una delle sue
vittime), ci sembra infatti che l'ironia attraversi il film come una presenza
costante ma sottintesa, intrappolata nel viso di Yamamoto e, più in generale,
in una visione nichilistica dell'esistenza, in nome della quale, non esistono
cose realmente importanti, al di là, forse, dell'amicizia: perché, dunque,
perdere la calma?
Molto sarebbe ancora da dire sul contatto tra Kitano e il gangster-movie
americano, su alcune delle sue stereotipie narrative traslate oltreoceano
o a proposito di invenzioni come un lunghissimo piano sequenza, in chiusura,
fatto praticamente di una sola parola. Ci sarà certamente tempo per farlo.
Voto: 30/30
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