
Michael Moore, 48enne regista del Michigan, già autore di film controtendenza
come "Roger & Me" e "The Big One" contro la globalizzazione e contro le
multinazionali, con questo coraggiosissimo film-documentario ci conduce
in un viaggio alla scoperta dell'altra notizia, quella che ormai TV e
media non ci forniscono più, quella che mette l'individuo dotato di ragione
e coscienza civica di fronte ad eventi tragici, senza il gusto sadico
di fare del dolore un show televisivo e senza voler a tutti i costi prendere
posizioni di fronte agli avvenimenti, ma costringendo alla riflessione
e alla ricerca della verità oltre la sensazionalismo dell'evento.
Partendo dalla strage avvenuta presso la Columbine School in Colorado
nell'aprile del 99, ad opera di due suoi studenti, Moore solleva con forza
il problema della diffusione delle armi tra i civili negli Stati Uniti,
fornendo cifre che inducono a fare proporzioni tra numero di abitanti
e numero di armi e di omicidi che ogni anno si verificano negli States.
Forse tutto ciò dipende dalla facilità con cui è possibile procurarsele?
Chiede il regista ai suoi intervistati. Non ci sono negli Stati Uniti
misure restrittive per il possesso e l'acquisto di armi, fatta eccezione
per coloro che soffrono di disturbi psichici, mentre paradossalmente non
impedisce l'acquisto di armi l'avere precedenti criminali ma addirittura
è considerato dovere di un americano responsabile avere un'arma in casa.
Senza fare del facile moralismo e senza prendere posizioni a priori, Moore
ci mostra con intelligenza e ironia una civiltà americana completamente
in balia della paura così ben alimentata dai mezzi di informazione: la
paura dell'uomo nero - da sempre criminalizzato e associato a stereotipi
negativi - la paura degli attacchi armati e terroristici - che con un
breve ma efficace riassunto degli interventi militari americani (Vietnam,
Serbia, Nicaragua, Cile, e molti altri) ci dimostra come sia servita a
pretesto per compiere una serie lunghissima di stragi - la paura della
follia umana - che "costringe" a dormire con una 44 Magnum sotto il cuscino,
e così via… Di qui un altro l'interrogativo che Michael Moore pone incessantemente
ai suoi interlocutori, vittime o carnefici che siano, da dove ha origine
tanta violenza? Nella carrellata delle interviste memorabile quella alla
rockstar Marilyn Manson, additato dai più come istigatore al male e alla
violenza, che invece sorprende tutti per la sua netta posizione nei confronti
di Bush Jr e che alla domanda su cosa avrebbe detto ai ragazzi di Columbine
risponde con saggezza "Niente, ascolterei quello che loro hanno da dire,
cosa che nessuno ha fatto". Non c'è spazio per il qualunquismo e per il
pietismo quando si scende in prima persona per strada ad affrontare la
realtà, e così fa Moore andando ad incontrare due ragazzi rimasti gravemente
menomati per le ferite riportate nella strage e li convince ad andare
direttamente da chi questi proiettili da 9mm, acquistabili anche al supermarket,
li ha prodotti e messi in vendita. Il risultato avrà dell'incredibile,
dopo un assedio pacifico la casa produttrice si vede costretta a prendere
l'impegno di interromperne la produzione e a stabilire dei tempi brevi
per il loro ritiro dal commercio. Ancora una volta lo spettatore non può
non considerare che se queste battaglie fossero combattute più spesso
e con più convinzione qualche vittoria in più si otterrebbe. Questo film,
che ha ricevuto il Gran Premio della Giuria al 55° Festival di Cannes
e quello del Pubblico a Toronto (dopo che negli Stati Uniti era stato
censurato), per il suo potere educativo e comunicativo dovrebbe essere
visto da gente di tutte le età ma soprattutto da quei giornalisti che
hanno perso completamente di vista il senso del loro mestiere e come un
esercito di marionette scendono in campo al servizio di chi la notizia
la manipola a seconda dei propri scopi. Vale più di qualsiasi commento
il piano sequenza sui cronisti accorsi come sciacalli sulla tragedia di
turno - l'uccisione di una bimba di 6 anni da parte di un suo coetaneo
- e ridicolmente tutti in fila di fronte alla propria telecamera, attendono
il momento in cui indosseranno la solita espressione di circostanza al
fine di suscitare commozione per quanto è accaduto e fomentare ancora
una volta la paura nel cittadino medio, senza cercare di conoscere cosa
invece ha portato a un evento tanto grave (famiglia, scuola, società).
Ci pensa lo stesso Moore che a chiusura di due ore di film, in cui non
c'è un minuto di banalità o noia, parte all'attacco della vecchia gloria
di Hollywood, Charlton Heston, diventato testimonial della N.R.F. (National
Rifle Foundation), la più grossa lobby di costruttori di armi americane.
Dopo una serie di filmati che lo vedono sui luoghi delle stragi mentre
aizza folle di esaltati con il suo macabro credo "solo 5 parole: nelle
mie fredde mani morte" e innalza il bazooka come nuovo vessillo dei popoli,
Moore gli fa visita nella tranquilla e faraonica villa di Beverly Hills
incalzandolo con le solite domande, apparentemente innocue ma che in realtà
non danno scampo: non c'è risposta di fronte al perché della violenza
e il vecchio divo messo alle strette non sa far altro che voltare le spalle
e allontanarsi con la telecamera che lo segue implacabilmente, mostrandocelo
sghembo e malfermo. Utilizzando la tecnica documentaristica, scevra di
qualsiasi manierismo cinematografico, Moore compone un collage perfetto
tra riprese reali con telecamere nascoste nei luoghi delle stragi, che
esplodono sullo spettatore con tutta la loro drammatica forza visiva,
frammenti di conferenze stampa di Capi di Stato alternate a immagini di
operazioni belliche dell'esercito americano, cartoon che diventano cronistoria
del popolo afro-americano dalla schiavitù a oggi, spezzoni di servizi
andati in onda sulle TV americane dove il black-man è sempre insistentemente
associato al mostro di turno, foto dei volti delle vittime e di quelli
dei loro carnefici - quasi a mostrarci che non sono poi così diverse -,
primi piani sugli sguardi allucinati di giovani e meno giovani che rivelano
quasi con orgoglio passate connivenze con gli attentatori, lunghe e silenziose
inquadrature su chi il dolore l'ha subito e si trova smarrito in una società
che non intende cercare vie alternative alla soluzione dei problemi.
Voto: 30/30 e lode
|