Un film che ci costringe all'impasse: velleitario parto gemellare del JFK
di Oliver Stone, ma programmaticamente privo di quel fuoco analitico che
scavava fino all'incredibile verità, BOBBY si disfa nelle maglie allentate
di mille storie comuni colte nel trascinarsi (r)esistenziale dietro le
quinte della messinscena elettorale allestita da/per Bob Kennedy, destinata
a consegnare l'ennesimo corpo in frammenti all'orrenda cronaca, poi
Storia, dell'America tra il '68 e il 1971.
Estevez/Sheen soffre un po' la Sindrome di Altman, aggiornata dopo
recenti studi in Morbo di Paul Th. Anderson-Haggis:
compensare i vuoti narrativi, e la conseguente furba secchezza di dialoghi
istantanei ma elusivi ammiccanti superficiali, con
questa mania moltiplicativa di personaggi e situazioni, questa presunta
coralità (ma il coro è orchestrato, segue uno spartito) che dovrebbe
nascere "a" NASHVILLE o M.A.S.H., svilupparsi in AMERICA OGGI e diventare
rimando infinito e metodo in MAGNOLIA o CRASH.
Hotel Ambassador, Los Angeles, 4 giugno 1968: Robert Kennedy annuncerà la
vittoria alle primarie californiane e il lancio verso la corsa alla Casa
Bianca.
BOBBY narra tutto quello che brulica dietro e dentro la macchina
organizzativa elettorale e all'interno dell'hotel stesso, incrociando
bariste wannabees, attivisti neri, cantanti alcolizzate, portieri d'albergo in pensione, centraliniste e lavoranti
generici, che parlano fra loro in continuazione.
è sempre molto irritante smascherare dialoghi magniloquenti nascosti dietro
lo schermo di un filosofeggiare dimesso (il chattare della parrucchiera
buona frustrata e della cantante acida declinante, lo svanire invecchiando
di Belafonte & Hopkins, i sogni infranti della giovane coppia spezzata dalla
chiamata alle armi, etc).
Riusciamo quasi a vedere il faticoso lavorio di cesello dello
sceneggiatore (sempre Estevez) mentre studia con sei occhi i dvd dei film
citati sopra, convinto che la deriva esistenziale passi attraverso l'affabulare invece che fissarsi sugli sguardi, la gestualità, i silenzi. La
ricerca a tutti i costi dello scarto emotivo all'interno di ogni
scena, operato attraverso un passaggio dal tono lieve al rimuginare
compulsivo su crisi personali, svela il piano, il complotto per ottenere un'immediata e
stupita reazione nello spettatore.
Il caso Kennedy-2, l'ennesimo assassinio di stato per bloccare l'avanzata
delle culture alternative al potere delle multinazionali e dell'industria
bellica e per liberare i neri e la cultura giovanile anti-Vietnam, è materia
sulfurea e, come tale, meritevole di un approccio diverso: assolutamente
inadeguato è lo sparpagliamento stocastico di figure che agiscono nel
retrobottega dello scintillante proscenio della politica, anche perché il
nesso tra queste e Bobby, paladino dei reietti, andava approfondito, mentre
sfiora solo la pelle del racconto, attaccandosi alla superficie delle parole
(Kennedy è la nostra speranza, sarà il presidente del cambiamento e così
via).
L'intuizione di una doppia speranza spezzata - il nuovo paladino muore, di
conseguenza muoiono i sogni del suo popolo - era intrigante, veicolo
emozionante per mille spunti, mille idee: la delusione è, quindi, notevole,
perché si rimane in mezzo al guado, privati del potente approccio filologico
di JFK (che concentrava le ragioni del pathos nella sola figura di Garrison)
e, in alternativa, senza possibilità di affezionarci ai personaggi (22!) messi sulla scena.
Valga per tutti il sous chef di Laurence Fishburne mentre discetta di
gerarchie razziali con i camerieri messicani, Rodriguez e
Vargas, usando i mezzi di una retorica ampollosa a metà tra Shakespeare e lo
zio Tom, col solo risultato di avallare l'assunto-base dell'America
democratica: si aprano le porte a tutte le razze, a patto che queste
ricambino il favore disponendosi, rispetto al momento d'arrivo, nella scala
sociale sempre aggiornata. Nel 1968 i chicos erano gli ultimi arrivati e,
come tali, sottostavano anche ai neri.
Chi è stato di recente a Los Angeles o New York ha potuto apprezzare, con
orrore, la teoria di etnie che ti portano dall'aeroporto all'albergo,
disposte come figurine di un regime repressivo che le adotta dopo averle
battute (mai ad armi pari) sul piano bellico o economico: l'iracheno ti
offre taxi abusivi, il russo ti carica sù, il portoricano-messicano ti
prende i bagagli, mentre una cameriera vietnamita ti sta preparando la
camera e il colored è già arrivato a dirigere la reception...
La capacità di riprodurre all'infinito nuove versioni di questi gironi
infernali del sociale è specchio di ciò che gli Stati Uniti fanno ormai da
un secolo: fanno affari, con chiunque, e non importa se questo costa milioni
di vite umane.
Inventano (male) un nemico fittizio; stringono con questo accordi
commerciali (la famiglia Bush con quella di Osama); fingono una crisi di
rapporti; indottrinano mediaticamente le loro colonie controllate dalla Cia
- Italia compresa - sulla necessità di battere il Nuovo Mostro (CCCP,
Corea, Vietnam, Afghanistan, Iraq...); lo radono al suolo con bombe stupide
e generali decerebrati; sostituiscono i soldati morti o quelli suicidatisi
sul posto con la nuova (bassa) mano d'opera costituita dai desperados
appena sconfitti, disposti a farsi ricollocare ovunque; azzerano le culture
locali; costruiscono oleodotti realizzati dai petrolieri texani (la peggior
razza del pianeta, una vera jattura); ricostruiscono le città in macerie
con ditte americane; continuano ad ammorbare il pianeta con la loro inutile,
insopportabile presenza, tradendo i Padri Fondatori, Jefferson e Lincoln.
La ruota girerà, come è giusto che sia, ma intanto il massimo che possiamo
fare è prendercela col povero Estevez, che ha
sprecato un'occasione per dire come stanno le cose (alla Spike Lee, ad
esempio) e non basta di certo il comune voice over di Martin Sheen, che
apriva JFK e chiude questo BOBBY, per spalancare gli occhi a chi se li
serra: va bene il siparietto simpatico sui poteri dell'LSD e la cultura
figlia di Timothy Leary (di fatto l'unico segmento perfetto del film), va
bene il corteo di anime perse, ma era troppo pretendere che invece d'inquadrare il fantoccio
assassino, appartenente al gruppo Sirhan Sirhan,
si facessero vedere gli agenti della Cia sparsi per l'Ambassador che gli
spianarono la strada, come a Dallas cinque anni prima?
Insomma, il film non è malissimo, e va sostenuto, anche se solo col cuore. I
timori dell'esordiente, però, per quanto molto guidato da Martin Sheen,
sono assai evidenti: horror vacui nell'organizzare l'inquadratura, horror
vacui nel comporre un cast esagerato e sprecato (altra forma di
compensazione), horror vacui nel montaggio, definizione incerta dei tempi
di durata delle scene (o troppo brevi o troppo lunghe), sensazione di un
contributo "sulla fiducia" da parte degli attori, sicuramente in regime di
paga sindacale, più devoti alla causa del film impegnato e all'amicizia
verso la famiglia Sheen che consapevoli dell'effettivo talento registico di
Estevez, tutto ancora da dimostrare.
è comunque divertente vedere insieme la Moore e la Stone, piacevole
osservare l'esordio di Mary Elizabeth Winsted, buffo riconoscere la
comicità di "That 70s Show" nel personaggio lisergico di Kutcher.
A mo' di epitaffio, diciamo solo che l'elezione di Nixon strappata col
sangue di Bobby - mai petrolieri e industria bellica avrebbe permesso un'altra sconfitta del peggior presidente U.S.A.
(con i due Bush) dopo quella
patita nel 1960 contro Jfk - è stato un buco nero nella Storia
contemporanea.
Nello stesso '68 erano pronti i trattati di pace per il Vietnam, l'"I had a
dream" di MLKing contagiava il popolo dei neri, la Summer
of Love dell'anno prima aveva cementato la protesta hyppie: l'impresentabile "Dick" arrivò come la peste a spegnere l'intero
Movimento per la Pace.
Se Johnson si era dedicato all'eliminazione dei leader di colore (Malcom X
nel '65 e lo stesso King nel '68), Nixon, un anziano privo di appeal e di
genio, quindi l'opposto di John & Bob, si applicò con la meticolosità dei
mediocri e complessati a cercare di opporsi all''ondata di gioventù che
occupava i Campus universitari e ai suoi leader carismatici: le rock star.
Il solito Oliver Stone, in NIXON, sottolinea i tratti di una lotta anche
personale del presidente contro tutto ciò che ne era l'antitesi: ecco
perché morirono i quattro studenti della Kent State University in Ohio (1970) durante una dimostrazione per la pace in Vietnam, ecco la ragione
degli analoghi scontri di Chicago (1968), le misteriose morti di Janis
Joplin-Jimi Hendrix-Jim Morrison (biennio '70/'71) e la persecuzione nei
confronti di John Lennon, a cui penserà Ronald Reagan appena eletto.
Alzi la mano chi crede a episodi casuali e non a un monito per il mondo
del rock, che infatti si placò, in America, e lasciò il testimone al (benedetto) punk anglosassone.
Con Bobby presidente tutto questo non sarebbe mai accaduto e la guerra in
Vietnam si sarebbe conclusa sette anni prima.
Voto: 24/30
09:09:2006
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