BLOW
di Ted Demme
con Johnny Deep, Penelope Cruz, Franka Potente, Paul Reubens, Ray Liotta



C'è modo e modo di rifletter su temi scontati ma importanti come le degerazioni ossessive del benessere sociale e l'illusorietà celata dai sogni. Ted Demme lo fa raccontando una storia "vera" (per quanto possa esserlo una ricostruzione cinematografica hollywoodiana) di George Joung, narcotrafficante americano che ebbe il merito di introdurre per primo la cocaina negli Stati Uniti. Nato in una modesta famiglia dell'East Coast, Joung (Johnny Depp) si trasferisce presto in California dove inizia a trafficare erba evolvendosi presto da pusher da spiaggia a coordinatore di traffici all'ingrosso oltre le frontiere della California, fino ad estendere il suo business allo smercio più impegnativo e redditizio di cocaina dal Messico agli Stati Uniti. Professionista di grande carisma, il nostro è capace di mobilitare quintali di polvere bianca in barba a ogni controllo e di piazzarla sui mercati in tempi da record. Uomo di buon gusto, esteta raffinato nel suo stile anni '70, cinico e distaccato manipolatore di miliardi è coinvolto in una escalation di donne, piaceri e affari milionari finchè il suo mondo non gli rovina addosso e lo lascia a secco di ogni cosa, avviandolo verso un percorso di decadenza fisica (da notare il naso deformato e la pancetta) e morale al termine del quale c'è una solitudine totale e l'amore della figlia drammaticamente negato.
E' una veccia strategia quella di ricorrere a storie suggestive, facilmente leggibili e ricche di materiame narrativo da sviluppare per veicolare messaggi che sfiorano il cuore e sfamano l'intelletto, intrattenimento per le masse e contentino per gli spettatori criticoni, salvo incorrere nel rischio collaterale a certe soluzioni narratologiche: che la "morale", cioè, venga a puzzare di appiccicaticcio. Demme gestisce il potenziale del suo racconto con una maestria assolutamente ordinaria, senza troppo eccedere nei toni del mèlo né tantomeno in quelli della introspezione psicologica, programmaticaente by-passata dalla grammatica che insegnano nella scuola da cui proviene. Il risultato è un film dal ritmo scorrevole, stabilizzato dalla forza di un personaggio che si tiene in equilibrio tra il coraggio e la spacconeria senza debordare nel coinvolgimento eccessivo nei fasti del suo successo durante la fase di ascesa e che rimpiange, dopo la caduta, nient'altro che l'amore della figlia e il valore degli insegnamenti paterni. Di grande impatto emotivo è la caratterizzazione del padre (Ray Liotta) attorno alle cui poche ma efficaci apparizioni si costruisce il segno di un autorevole referente morale. Uomo semplice e generoso, padre americano in senso classico, dolce e amorevole nei confronti del figlio peccatore ma maturo abbastanza da presentire la trappola, da intuire il tracollo imminente di chi identifica nel potere e nel successo la strategia vincente per una vita felice. Il seducente congegno empatico che lavora nel rapporto tra George e suo padre, tanto intenso quanto tristemente aromatizzato da un odore di sconfitta, viene tradito dalla connotazione troppo drastica delle figure negative come la madre di George e la moglie Mirtha (Penelope Cruz), assolutamente irritanti e per nulla credibili nella esibizione dei loro starnazzi della loro indiscriminata ingordigia.
Nel complesso un film non speciale, che trova una sua misura accettabile nel compromesso tra "drammaturgia" epica e impegno intellettuale e rimane in bilico, senza scegliere tra l'una o l'altra opzione, tra l'ebrezza narrativa di chi come Ferrara o Scorsese o Tarantino, in modi diversi, cerca di elaborare una estetica del male operare senza intromettersi nella trattazione etica dei fatti e chi, come il Soderbergh di TRAFFIC, riesce invece a intessere una lucida riflessione senza rinunciare al lavoro sullo stile e sulla elaborazione drammatica.


Voto: 24/30

Mirco GALIE'
01 - 10 - 01


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