
C'è modo e modo di rifletter su temi scontati ma importanti come
le degerazioni ossessive del benessere sociale e l'illusorietà
celata dai sogni. Ted Demme lo fa raccontando una storia "vera"
(per quanto possa esserlo una ricostruzione cinematografica hollywoodiana)
di George Joung, narcotrafficante americano che ebbe il merito di introdurre
per primo la cocaina negli Stati Uniti. Nato in una modesta famiglia dell'East
Coast, Joung (Johnny Depp) si trasferisce presto in California dove inizia
a trafficare erba evolvendosi presto da pusher da spiaggia a coordinatore
di traffici all'ingrosso oltre le frontiere della California, fino ad
estendere il suo business allo smercio più impegnativo e redditizio
di cocaina dal Messico agli Stati Uniti. Professionista di grande carisma,
il nostro è capace di mobilitare quintali di polvere bianca in
barba a ogni controllo e di piazzarla sui mercati in tempi da record.
Uomo di buon gusto, esteta raffinato nel suo stile anni '70, cinico e
distaccato manipolatore di miliardi è coinvolto in una escalation
di donne, piaceri e affari milionari finchè il suo mondo non gli
rovina addosso e lo lascia a secco di ogni cosa, avviandolo verso un percorso
di decadenza fisica (da notare il naso deformato e la pancetta) e morale
al termine del quale c'è una solitudine totale e l'amore della
figlia drammaticamente negato.
E' una veccia strategia quella di ricorrere a storie suggestive, facilmente
leggibili e ricche di materiame narrativo da sviluppare per veicolare
messaggi che sfiorano il cuore e sfamano l'intelletto, intrattenimento
per le masse e contentino per gli spettatori criticoni, salvo incorrere
nel rischio collaterale a certe soluzioni narratologiche: che la "morale",
cioè, venga a puzzare di appiccicaticcio. Demme gestisce il potenziale
del suo racconto con una maestria assolutamente ordinaria, senza troppo
eccedere nei toni del mèlo né tantomeno in quelli della
introspezione psicologica, programmaticaente by-passata dalla grammatica
che insegnano nella scuola da cui proviene. Il risultato è un film
dal ritmo scorrevole, stabilizzato dalla forza di un personaggio che si
tiene in equilibrio tra il coraggio e la spacconeria senza debordare nel
coinvolgimento eccessivo nei fasti del suo successo durante la fase di
ascesa e che rimpiange, dopo la caduta, nient'altro che l'amore della
figlia e il valore degli insegnamenti paterni. Di grande impatto emotivo
è la caratterizzazione del padre (Ray Liotta) attorno alle cui
poche ma efficaci apparizioni si costruisce il segno di un autorevole
referente morale. Uomo semplice e generoso, padre americano in senso classico,
dolce e amorevole nei confronti del figlio peccatore ma maturo abbastanza
da presentire la trappola, da intuire il tracollo imminente di chi identifica
nel potere e nel successo la strategia vincente per una vita felice. Il
seducente congegno empatico che lavora nel rapporto tra George e suo padre,
tanto intenso quanto tristemente aromatizzato da un odore di sconfitta,
viene tradito dalla connotazione troppo drastica delle figure negative
come la madre di George e la moglie Mirtha (Penelope Cruz), assolutamente
irritanti e per nulla credibili nella esibizione dei loro starnazzi della
loro indiscriminata ingordigia.
Nel complesso un film non speciale, che trova una sua misura accettabile
nel compromesso tra "drammaturgia" epica e impegno intellettuale
e rimane in bilico, senza scegliere tra l'una o l'altra opzione, tra l'ebrezza
narrativa di chi come Ferrara o Scorsese o Tarantino, in modi diversi,
cerca di elaborare una estetica del male operare senza intromettersi nella
trattazione etica dei fatti e chi, come il Soderbergh di TRAFFIC, riesce
invece a intessere una lucida riflessione senza rinunciare al lavoro sullo
stile e sulla elaborazione drammatica.
Voto: 24/30
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