VENEZIA.66

 

the informant

di Alexander Sokurov

Russia 2009, 96'

 

Orizzonti - Eventi

 

30/lode

La voce di Sokurov rimbomba cavernosa come al solito. Ne esce qualcosa del tipo “visti i tempi che corrono, ho deciso che ci vuole qualcosa che restituisca una direzione e un senso morali”. Né più, né meno.
Dopodiché, cede la parola. In uno studio radiofonico, decine di persone di professione, estrazione sociale e età diverse leggono a turno il resoconto (di Danil Granin e Ales Adamovich) dei terrificanti novecento giorni di assedio di Leningrado durante la seconda guerra mondiale. Gente che mangia la colla da scarpe, temperature implacabili e una lotta sovrumana per mantenere la dignità umana in condizioni assolutamente impossibili.
Straordinaria, straziante, indimenticabile impresa di disperato umanesimo. Solo un immenso anacronismo ambulante (e per fortuna) come Sasha Sokurov poteva capire la posta in gioco di testimonianze come quelle. L’essenza dell’uomo, nientemeno. Quella che rimane lì anche quando tutto intorno precipita e muore. Quest’essenza, quella che abbraccia tutti gli uomini in una comune umanità, è la voce. La filosofia (la fenomenologia in particolare) ci è arrivata da tempo, e Sokurov lo sa bene. Per questo riempie l’inquadratura dello studio radiofonico dove si tengono le letture di microfoni e apparecchi di amplificazione. E per questo, nel film, il volume delle voci che ci vengono fatte udire è particolarmente alto, quasi a sciogliere il significato nella presenza brutale del significante sonoro. Nulla ci stringe più forte agli altri uomini della voce, nulla come la voce è più identico in ogni parlante e irriducibilmente diverso, come uguale e diverso deve essere ogni uomo per potersi dire tale.
Il testo si scioglie nel pulviscolo impalpabile della voce – e infatti, il leitmotiv visuale che attraversa tutto il film è il libro da cui quelle persone leggono, però riflesso nel vetro, in modo che i contorni ne escano deformati, sfumati, come in via di evaporazione. Nulla di più trasparente della voce, l’essere più intimo degli uomini messo a nudo, a livello base. Eppure niente di più opaco della voce: nessuna voce, per nuda che sia, è “la voce”, ma solo “una” voce. Insomma: è una trasparenza che “copre” se stessa, proprio come l’acqua della pioggia che rende opaco il vetro (altrettanto trasparente) su cui si posa, quello dello studio radiofonico che Sokurov usa per giocare in avvicinamento-allontanamento dai totali dello studio ai suoi lettori. Per coprirli, e per evidenziare che non sono altro che quell’opaca trasparenza che è la loro voce.
Nel passaggio-chiave di queste sconvolgenti testimonianze, un uomo dice che la lettura in un libro di una frase del tipo “la tavola fu apparecchiata” gli fu subito insopportabile. La “base”, lo stomaco, impediva alla “sovrastruttura”, il cervello, di funzionare. Ma attenzione: solo perché un legame è stato posto tra i due livelli. Subito dopo, lo stesso uomo dice che si è messo a leggere altri libri, anche più impegnativi ma senza tavole e altro, e la cosa gli ha dato sollievo.
La base è la base, certo. Ma non tiranneggia la sovrastruttura. Lo stomaco è lo stomaco, e la voce viene proprio da lì. La voce è la base, certo. Un fondamento, il nostro fondamento di esseri parlanti. Ma è un fondamento sfondato, un’essenza che per attivarsi ha bisogno di negarsi, una comunanza che può esistere solo lasciando la parola alla singolarità di ogni parlante. La voce è proprio quel punto dove il comune e il singolare sfumano reciprocamente. Per questo, secondo la stupenda definizione che ne dà Jean-Luc Nancy (il film di Sokurov è davvero uno dei rarissimi film autenticamente comunisti. E il fatto che a propugnarlo sia uno dei registi più esplicitamente filo-putiniani non ne mina il valore, ma anzi conferma quanto non ci sia politica senza ontologia. E non c’è ontologia senza voce.
 

12:09:2009

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Venezia, 02/12 settembre 2009