La voce di Sokurov rimbomba cavernosa come al solito. Ne esce
qualcosa del tipo “visti i tempi che corrono, ho deciso che ci vuole
qualcosa che restituisca una direzione e un senso morali”. Né più, né meno.
Dopodiché, cede la parola. In uno studio radiofonico, decine di persone di
professione, estrazione sociale e età diverse leggono a turno il resoconto
(di Danil Granin e Ales Adamovich) dei terrificanti novecento giorni di
assedio di Leningrado durante la seconda guerra mondiale. Gente che mangia
la colla da scarpe, temperature implacabili e una lotta sovrumana per
mantenere la dignità umana in condizioni assolutamente impossibili.
Straordinaria, straziante, indimenticabile impresa di disperato umanesimo.
Solo un immenso anacronismo ambulante (e per fortuna) come Sasha Sokurov
poteva capire la posta in gioco di testimonianze come quelle. L’essenza
dell’uomo, nientemeno. Quella che rimane lì anche quando tutto intorno
precipita e muore. Quest’essenza, quella che abbraccia tutti gli uomini in
una comune umanità, è la voce. La filosofia (la fenomenologia in
particolare) ci è arrivata da tempo, e Sokurov lo sa bene. Per questo
riempie l’inquadratura dello studio radiofonico dove si tengono le letture
di microfoni e apparecchi di amplificazione. E per questo, nel film, il
volume delle voci che ci vengono fatte udire è particolarmente alto, quasi a
sciogliere il significato nella presenza brutale del significante sonoro.
Nulla ci stringe più forte agli altri uomini della voce, nulla come la voce
è più identico in ogni parlante e irriducibilmente diverso, come uguale e
diverso deve essere ogni uomo per potersi dire tale.
Il testo si scioglie nel pulviscolo impalpabile della voce – e infatti, il
leitmotiv visuale che attraversa tutto il film è il libro da cui quelle
persone leggono, però riflesso nel vetro, in modo che i contorni ne escano
deformati, sfumati, come in via di evaporazione. Nulla di più trasparente
della voce, l’essere più intimo degli uomini messo a nudo, a livello base.
Eppure niente di più opaco della voce: nessuna voce, per nuda che sia, è “la
voce”, ma solo “una” voce. Insomma: è una trasparenza che “copre” se stessa,
proprio come l’acqua della pioggia che rende opaco il vetro (altrettanto
trasparente) su cui si posa, quello dello studio radiofonico che Sokurov usa
per giocare in avvicinamento-allontanamento dai totali dello studio ai suoi
lettori. Per coprirli, e per evidenziare che non sono altro che quell’opaca
trasparenza che è la loro voce.
Nel passaggio-chiave di queste sconvolgenti testimonianze, un uomo dice che
la lettura in un libro di una frase del tipo “la tavola fu apparecchiata”
gli fu subito insopportabile. La “base”, lo stomaco, impediva alla
“sovrastruttura”, il cervello, di funzionare. Ma attenzione: solo perché un
legame è stato posto tra i due livelli. Subito dopo, lo stesso uomo dice che
si è messo a leggere altri libri, anche più impegnativi ma senza tavole e
altro, e la cosa gli ha dato sollievo.
La base è la base, certo. Ma non tiranneggia la sovrastruttura. Lo stomaco è
lo stomaco, e la voce viene proprio da lì. La voce è la base, certo. Un
fondamento, il nostro fondamento di esseri parlanti. Ma è un fondamento
sfondato, un’essenza che per attivarsi ha bisogno di negarsi, una comunanza
che può esistere solo lasciando la parola alla singolarità di ogni parlante.
La voce è proprio quel punto dove il comune e il singolare sfumano
reciprocamente. Per questo, secondo la stupenda definizione che ne dà
Jean-Luc Nancy (il film di Sokurov è davvero uno dei rarissimi film
autenticamente comunisti. E il fatto che a propugnarlo sia uno dei registi
più esplicitamente filo-putiniani non ne mina il valore, ma anzi conferma
quanto non ci sia politica senza ontologia. E non c’è ontologia senza voce.
12:09:2009
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