IL BOSCO FUORI

di Gabriele Albanesi

Con Daniela Virgilio, Daniele Grassetti

di Gabriele FRANCIONI

 

Andrea viaggia in macchina con i genitori in direzione Roma, ma un evento improvviso interviene a cambiarne, in un istante, l’intera esistenza, che riparte da una corsa affannosa dentro il bosco, in cerca di salvezza.

Rino ama Aurora, ma la relazione tra i due ragazzi s’interrompe presto.

Il tentativo di farla ripartire abortisce ai bordi di una strada di campagna, quando una banda di teppistelli minaccia la coppia avvicinandosi all’auto in cui si trovano.

Un’altra auto transita casualmente su quella strada e i due viaggiatori, marito e moglie, intervengono per salvare Aurora e Rino, portandoli nella loro casa.

 

Immersa nel bosco…

 

 

I.B.F. è il tentativo, assolutamente riuscito, di realizzare in assoluta indipendenza produttiva e secondo i sani criteri del low budget un film capace di veicolare sottotesti pur rimanendo all’interno del cinema di genere, grazie a una lucida e precisissima esposizione delle regole dell’horror. Il primo lungometraggio di Gabriele Albanesi è il prodotto più maturo e consapevole tra quelli della sua generazione, poiché fa uso dei codici del genere di riferimento non come una gabbia costrittiva e vincolante, ma  come un territorio fecondo all’interno del quale produrre microvariazioni significative su uno spartito dato, che si avvale di molteplici riferimenti ad altri capolavori del thriller-horror e ai relativi, ormai classici topoi narrativi: LA CASA di Sam Raimi, TEXAS CHAINSAW MASSACRE di Tobe Hooper, ANCHE LE COLLINE HANNI GLI OCCHI di Wes Craven e diversi altri. Albanesi s’inserisce a tutti gli effetti all’interno di quella benemerita categoria di cineasti che intendono la citazione come un omaggio al cinema del passato e alle maestranze in esso coinvolte, oggi a rischio di estinzione a causa delle computer graphics.

Il regista dimostra, a nemmeno trent’anni, una grande padronanza nell’uso del mezzo tecnico, nella scansione dei ritmi interni alla storia, nella definizione di un universo visivo complesso e ricco, cromaticamente affascinante e addirittura nella sicura direzione degli attori, assai coinvolti nello sposare la filosofia complessiva del progetto (si vedano i camei di Elisabetta Rocchetti e Enrico Silvestrin).

Albanesi è stato assistente dei Manetti Bros., qui anche in veste di coproduttori, e si avvale dell’imprescindibile contributo di Sergio Stivaletti agli effetti speciali, cruenti e perfetti per ricreare le citate atmosfere, il tutto con un impegno produttivo complessivo di soli 45mila euro. Il regista romano è già ora un vero “Artigiano dell’orrore”, secondo la definizione coniata da Paolo Fazzini nel suo libro omonimo, e riprende la tradizione della New World di Roger Corman, legandola all’horror italiano degli anni tra la seconda metà dei Settanta e l’analogo periodo del decennio successivo (Argento, Deodato, Lamberto Bava, Michele Soavi), sino a congiungersi a tutti gli effetti e con pieno merito all’attuale consolidata new wave internazionale di artigiani, da Takashi Miike a Eli Roth sino allo stesso Quentin Tarantino.

Più avanti entreremo nel dettaglio per definire al meglio questa nostra precisa convinzione di “appartenenza”.

 

 

Andrea è un bambino impaurito, e una casa accogliente, immersa tra gli alberi, può essere l’approdo felice e sicuro dopo una notte di orrore.

In questo stato d’animo si lascia andare tra le braccia di Clara, la sua nuova madre…

Aurora e Rino, dopo la violenza dei teppisti che li hanno assaliti, trovano ricovero anch’essi in una simile villetta nel bosco e la coppia che li accoglie ha tutto per sottrarli alla terribile esperienza che hanno appena vissuto.

Ora possono tornare in città rinfrancati e, forse, riavvicinati nel loro amore.

 

FORSE…

 

 

1/ GROTTAFERRATA DRIVE: Albanesi, Marshall, Lynch…

 

Se THE DESCENT vedeva la messa in scena dell’ineluttabilità ctonia, verticale del Male, IL BOSCO FUORI ne è la declinazione orizzontale, con simmetrica fuga finale della protagonista.

Il film di Gabriele Albanesi, giovanissimo ma già noto regista romano (il Dvd del film è stato comprato e distribuito nel mercato dell’Estremo Oriente, ottenendo un considerevole successo) condivide con la pellicola di Marshall anche l’incipit: un incidente automobilistico seziona il corpo di un nucleo familiare, lasciandone il singolo brandello sopravvissuto ad affrontare la residuale e poco accogliente oscurità dell’esistere in solitudine, fino all’incontro con l’indecifrabilità e lantilinearità del bosco (là erano grotte frastagliate, qui Grotta/ferrata), che è parafrasi/metafora dei sentieri del destino perennemente biforcantisi (J. L. Borges?). Ma il magistrale inizio de IL BOSCO FUORI, girato con grande piglio e maestria da Albanesi,  offre anche altri spunti tematici e descrive precise atmosfere che rimandano al penultimo Lynch e all’ultimissimo Tarantino, seppur ad esso precedente (il film è del 2006). La linearità della Narrazione (strada,highway) viene interrotta dall’intervento di uno o più fattori esogeni, che inducono una serie di derive successive destinate a farci perdere nel bosco del Senso.

Riannodando infatti il filo tematico che lega il finale di LOST HIGHWAY alla scena iniziale di MULHOLLAND DRIVE, entrambi epitomi di qualsivoglia biforcazione, Albanesi spezza la consequenzialità degli eventi servendosi del crash automobilistico (siamo anche dalle parti di WILD AT HEART) come divaricatore della storia, predisponendo la struttura del film ad una serie di improvvise sterzate che ne connotano tutta la prima parte, destinata a esporre senza pietà il carsico fiume oscuro che scorre sotto esistenze normali.

In tal senso si legga il “terzo” incipit, dove il breve ma importante stacco che segue una dissolvenza in nero, durante la quale ascoltiamo Aurora (“Non ci lasceremo mai!”) e Rino (“IO non ti lascerò mai…”), prelude a un cambio di temperatura emotiva. Occorre far qui riferimento, ancora una volta, a MULHOLLAND DRIVE, nel punto in cui il film si riflette su stesso e si dispone a raccontare la versione reale del trip onirico esperito nella prima parte della pellicola. Lo scarto emotivo è lo stesso, perché assistiamo a una terribile epifania del Reale, di ciò che veramente “ è“, fuori da ogni sogno (il film di Lynch) o trasfigurazione illusiva (nel BOSCO FUORI è l’idillio liceale del secondo inizio, tra una “Primavera” botticelliana, il poster di Stefania Sandrelli e momenti di sesso creativo).

Ciò che “è” veramente, è sempre e solo il Male.

Rino è come la Diane Selwyn di Lynch e segna irrimediabilmente il proprio destino nel momento in cui rincorre l’oggetto d’amore & desiderio non corrisposti, Aurora, che in questa fase assume piuttosto la facies di Tramonto (dell’amore, della gioia). La scena in cui Rino, dopo la geniale ellissi che scarta la fine della relazione con Aurora, l’aspetta sotto casa e ne causa la reazione infastidita, ha lo stesso, identico sapore livido e trasmette la medesima tragica tensione del risveglio di Diane/Naomi Watts che da solare esordiente nel mondo del cinema si trasforma in un animale fatto di rabbia e risentimento- ed è correttamente posta a segnare lo scarto più importante all’interno del film.

Ci troviamo, poco dopo, sempre dentro un’auto, come nelle prime battute del film: auto che svolta o si blocca, sbanda, va a sfasciarsi o a fermarsi (comunque) per sempre.

Come quella di Jungle Julia e Butterfly in DEATH PROOF/Grindhouse…

 

2/ AUTOMOBILE, Veicolo di Senso.

 

Impressionante la pertinenza di tale coazione a riproporre l’automobile come veicolo, in senso etimologico, di significati altri e sempre come doppio di qualcosa. Detto di Lynch – l’auto rappresenta il protagonista e allo  stesso tempo il regista che vanno alla deriva rispetto alle strade lineari del senso, come anche tutto il lungo segmento di Robert Loggia alla guida della Mercedes vintage in LOST HIGHWAY- bisogna dire di Tarantino.

Il padre di Giulio è a tutti gli effetti un road-killer, uno Stuntman Mike vestito da Freddy Kruger/Clara Calamai o con gli abiti di molti assassini dei primi thriller di Argento.

Sia chiaro: in DEATH PROOF l’auto è soprattutto un sovraesposto simbolo fallico, tanto quella di Kurt Russell quanto quella delle girls. Eppure c’è qualcosa nella volontà di morte della scena iniziale, incluso il cupo disquisire di Silvestrin sul percorso ancora da fare prima di arrivare (“(…) Manca ancora un po’prima di arrivare a Roma…”), che ricorda sinistramente l’eloquio mortale di Russell, che fa suo il radio-messaggio di Jungle Julia, attorno a strade, boschi bui, percorsi lunghi da fare prima di arrivare (morire?). Eppure Albanesi non poteva conoscere nel 2006 lo script di GRINDHOUSE…

 

 

3/ ARTIGIANO DELL’ORRORE: la citazione come continuità tra passato e presente del cinema.

 

Questa serie di osservazioni costituisce il nucleo del nostro pensiero sul cinema di Albanesi, che viene non a caso accostato a Lynch, Tarantino e ad altri che citeremo in seguito.

I.B.F. è opera che denuncia la propria natura di film di genere, rendendo esplicita la qualità metatestuale dei rimandi e delle citazioni che ormai, come insegna Quentin T., sono parte integrante dell’autoconsapevolezza della figura del regista post-post-moderno. In un’epoca di velocizzazioni coatte, imposte alla fruizione del prodotto-cinema ormai tendente all’annullamento della propria memoria, il termine “innovazione” non può essere più inteso in senso assoluto e l’“angelus novus” benjaminiano che guarda dietro a sé nel momento stesso in cui procede avanti, deve porsi come modello di riferimento per chiunque sia in grado di dar vita a una qualsivoglia poetica.

Detto altrimenti: poiché oggi il “nuovo” non coincide più con “innovazione creativa” ma solo con “veloce consumo”, è bene che il vero filmaker –sul tipo del Corman della New World, tanto per essere chiari- dimostri il proprio amore per il cinema tirando il freno a mano e rivolgendosi verso ciò che è stato già fatto e rischia di essere perduto.

Non siamo più, insomma, dalle parti di Lyotard-Derrida-Baudrillard: la verticalità dei Tempi Compresenti utilizzata come un serbatoio senza fondo di immagini e forme espressive dal fatidico e abusato Postmoderno inteso come contenitore e archivio aperto di ogni stile, accessibile a tutti, lascia il posto a un’idea di Passato Nobile dove solo l’artista/artigiano, quindi abile nel dominio della propria technè, va a prendere solo ciò che è realmente importante.

Qualcuno si chiede dove vadano a finire le pellicole dei film passati in sala? Vengono mandate al macero con una prontezza che dà i brividi, assai più velocemente di mezzo secolo fa, col solo pretesto dell’immortalità del Dvd.

Paolo Cerchi Usai potrebbe obiettare che anche ai tempi del muto o in epoca neorealistica le cose non erano diverse (problemi di stoccaggio; infiammabilità della cellulosa; sfiducia, agli albori, che quest’arte potesse reggere la prova del tempo, etc).

Il problema è che manca l’interesse a preservare il Passato come “idea”, in quanto abbattuto da tutta una serie di pensieri deboli che ne hanno minato la consistenza e la resistenza persino presso chi produce cultura, se dobbiamo registrare la cancellazione, nelle biblioteche americane, di titoli immortali -da Shakespeare a Scott Fitzgerald- proprio da parte di chi dovrebbe concettualmente predisporsi a lasciar stratificare le cose con lentezza.

Esiste, opposto a questa realtà agghiacciante, un fronte resistenziale di grandi personalità dedite alla preservazione del Passato in forme assai diversificate.

Ecco alcuni nomi:

 

- Martin Scorsese, ma anche Cerchi Usai per il muto, si batte per salvare e restaurare le pellicole del cinema mondiale in stato di degrado grazie alla sua benemerita Fondazione: agisce, cioè, direttamente sulla materia, come un vero bibliotecario-restauratore.

Scorsese è stato allievo di Roger Corman;

 

- Quentin Tarantino e i più diversi Artigiani della Settima Arte sparsi per il mondo, tra i quali tutti i registi italiani “di genere” riscoperti dalla Mostra di Venezia in questi ultimi 4 anni (gli “Artigiani dell’Orrore” del libro di Paolo Fazzini hanno un ruolo primario in tale contesto), agiscono in maniera metatestuale o testuale -il rubare teorizzato da Q.T.- inserendo e rimodellando, all’interno di film nuovi, brandelli del cinema che si vorrebbe far morire, sino all’apoteosi di GRINDHOUSE, vero manifesto di tale corrente di pensiero e azione. Più nello specifico Tarantino e, tra gli altri, Takashi Miike o l’Eli Roth di HOSTEL (e il nostro benemerito Gabriele Albanesi!), salvano dall’oblio alcune fondamentali figure che agiscono davanti e dietro la m.d.p., quali stuntmen e curatori degli effetti speciali, oggi a rischio di sparizione a causa della famigerata, quando usata troppo e male, C.G.I. DEATH PROOF, HOSTEL e IL BOSCO FUORI sono commoventi atti d’amore verso categorie a rischio di estinzione.

Stuntman Mike è già simbolo eroico di questa resistenza, tanto quanto Greg Nicotero lo è per gli “special effects artists” e non è casuale la sua collaborazione anche con John Carpenter.

Albanesi, dal canto suo, ricorre lucidamente e con passione vera, ai preziosi servigi di Mastro Sergio Stivaletti, il cui lavoro viene esaltato ne IL BOSCO FUORI.

La crew degli Artigiani annovera anche Joe Dante, Carpenter, Jonathan Demme e alcuni tra i “masters of horror” tornati in azione negli ultimi anni, molti dei quali formatisi alla scuola di Corman, che lo stesso Q.T. cita sempre tra le sue principali fonti d’ispirazione, oseremmo dire quasi un referente etico;

 

- David Lynch.

L’autore di INLAND EMPIRE, film di portata epocale, sceglie modalità ancora più indirette, lasciando scorrere sottotestualmente, a volte carsicamente, alcuni messaggi di “resistenza”.

Tra le mille cose che riesce ad essere contemporaneamente, infatti, INLAND EMPIRE è anche il grido di dolore di un altro Artigiano che vede scomparire, e intende salvare, la figura dell’Attrice/Star hollywoodiana soppiantata da decine di inconsistenti e transeunti starlettes votate al successo immediato.

MULHOLLAND DRIVE già trattava il medesimo tema con altro approccio, ponendo al centro della riflessione del regista – come accade anche per Gabriele Albanesi- figure femminili in pericolo, spesso perse tra metaforici boschi (non è forse vero che tanto Aurora quanto Rita/Camilla si muovono in contesti analoghi?).

 

 

Gabriele Albanesi sta perfettamente nella seconda categoria e IL BOSCO FUORI è la testimonianza di come citare uno o più film sia un segno d’amore per il cinema, ma solo se si è in possesso di una solida tecnica registica e di una poetica chiara e lucida. è solo un merito del regista se in I.B.F. troviamo riferimenti più o meno diretti a SAW, HOSTEL, TEXAS CHAINSAW MASSACRE, LE COLLINE HANNO GLI OCCHI, THE DESCENT, MULHOLLAND DRIVE/LOST HIGHWAY/WILD At HEART, DEATH PROOF, THE BLAIR WITCH PROJECT, PHENOMENA/SUSPIRIA, BOXING HELENA e persino THE BLACK DAHLIA  (Cesare ad Aurora: “ti faccio un sorriso da un orecchio ad un altro”).

Lo spettatore e il critico possono solo gioire del fluire continuo di un intero immaginario di genere che scorre davanti ai loro occhi, ma solo perché, come in Tarantino, il mix è abilmente organizzato e fatto proprio, come una grande casa in cui tutti possono abitare contemporaneamente (si veda la bella e sensuale Daniela Virgilio, che si trasforma in una maschera della morte rossa, una maschera di sangue in cui ritroviamo sia la protagonista di THE DESCENT sia la Stefania Casini di SUSPIRIA, cui s’ispirano anche i teli di nylon e l’insistito passaggio nella “stanza blu”. E i cromatismi esasperati non possono non far pensare anche ad INFERNO e, volendo, al mondo parallelo di TWIN PEAKS).

Un capitolo a parte meriterebbe il ricongiungimento finale delle due metà opposte/identiche di Giulio (la deformità nata nel contesto di una famiglia borghese adattatasi a coltivare e amare la diversità) e Andrea (il borghese ben riuscito ma tradito dalla sorte, che lo riduce a qualcosa di altro da sé…), con rimandi a FREAKS, BOXING HELENA e a molto altro.

è forse invece il caso di tornare a sottolineare la continuità con il cinema horror italiano degli anni Ottanta, siglata dalla presenza di Sergio Stivaletti, e segnata da grande maturità stilistica e da ottima padronanza del mestiere, oltre all’ironia acida che spinge Albanesi a sondare anche i territori del basso e del trash (i compari, ridotti a macchiette, prima che a cadaveri) e le ipercaratterizzazione dei tipi e dei topoi connessi, tra i quali non possiamo dimenticare il simil-Totti del personaggio di Cesare, con sfoggio di cinture e polsini giallorossi  (l’amico morente: “A Cè, er prete m’o diceva che mi dovevo fare i cazzi mia!”).
 

Voto: 30/30

23:08:2007

 il bosco fuori
Regia: Gabriele Albanesi
Italia 2007, n.d.
DUI: 24 agosto 2007
Genere: Horror