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LA BELLE ENDORMIE di Catherine Breillat
con Carla Besnaïnou,
Julia Artamonov |
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24/30
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Mettiamo subito in chiaro una cosa. Meno che mai, non è affatto questione di chiedersi “come” o “che cosa” sia quest’ultimo esperimento di Catherine Breillat. Né del resto la era per il precedente Barbablù, altro incomprensibile mischione di favole che improvvisamente svaccavano nel presente. La vera domanda è: perché? Già: perché? Perché mai la Breillat, dopo una carriera pluridecennale che, piaccia o non piaccia, aveva maturato una sua riconoscibilità e i suoi bravi (e notevoli) quarti di nobiltà cinefilo-autoriale (santi numi: altrimenti un mostro sacro come Maurice Pialat mica se la teneva appresso), decide di cambiare completamente direzione impelagandosi in queste indifendibili riprese di favole classiche liberamente restituite ai loro infernali sottotesti sessuali (in primis a quello, rovente, che concerne la fatale soglia della pubertà)? Ecco la nostra ipotesi. A districare l’intreccio di piani temporali e livelli narrativi che si avvita qui con onirica sbrigliatezza intorno a La Bella Addormentata, non ci pensiamo neanche. Meglio limitarsi all’impressione di superficie. E l’impressione di superficie è la seguente. La Breillat corre dietro allo “spazio narrativo primigenio”, cioè quello dell’infanzia - quello trasportato abbastanza banalmente dalle classiche categorie fiabesche di Vladimir Propp: concatenamento delle azioni a colpi di prove che si susseguono, il passaggio da un luogo topico (o una “stazione”) all’altro, etc. Questo spazio narrativo primigenio, anziché rivestirlo con le malie sgargianti dell’onirismo e delle magie dell’infanzia, prova a buttarcelo lì come qualcosa di rudemente concreto, come un pezzo di pietra respingente; del resto è proprio ciò che la Breillat ha sempre provato a fare con la sbocciante sessualità delle adolescenti dei suoi altri film. La fantasia, insomma, privata di tutto l’appeal misterioso del “fantastico” e restituito alla sua cruda durezza di “realtà”, come fosse un materiale qualsiasi. Il problema è che è il cinema stesso della Breillat a risultare ormai spogliato di qualsiasi appeal. Il suo voler intrecciare il limite estremo di immaginario (la fiaba) e il limite estremo del “concreto” (il sesso), e il suo voler individuare il punto in cui dal primo si passa all’altro abbandonando un’infanzia notoriamente tutt’altro che asessuata, proprio non funziona.
04:09:2010 |
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