Inglorioso no, ma
l’aggettivo “bastardo” Tarantino se lo merita. E gli farebbe pure piacere.
Pompare la presenza di Pitt per mesi e fargli fare una particina solo per
poter mettere in piedi questo stupefacente film politico la cui storia
centrale nessuno si filerebbe, è uno dei sempre nuovi motivi per celebrare
il suo genio. Anche se certo, dal punto di vista di un produttore, è
difficile non chiamarla una carognata.
Ma i buoni, nel film, sono le carogne, e viceversa. Aldo Raine (Brad Pitt) è
un eroe americano al 200%, tanto burbero, violento e scorretto quanto i
nazisti sono quasi sempre creature impeccabili, coltissime, gentilissime,
educatissime, squisite, affabili e quant’altro. Che poi questo faccia venire
in mente Lubitsch, non è per nulla un caso, se è vero che la prima, lunga
scena del film (che è anche il primo dei cinque capitoli in cui è composto)
cita apertamente il suo immortale
Vogliamo Vivere del 1942 (“E così… com’è che mi chiamano?
Colonnello…?”), su un gruppo di attori teatrali che sovvertono dall’interno,
infiltrandovisi, gli alti ranghi nazisti.
Similmente, la “storia centrale che nessuno si filerebbe”, accennata
poc’anzi, si infiltra e sovverte dall’interno l’obbligo dello star-system
pittian-hollywoodiano. Si tratta di un’allegoria di resistenza attraverso il
cinema: durante la guerra, Shosanna, giovane ebrea cinefila rifugiatasi a
Parigi dopo lo sterminio della propria famiglia nella Francia occupata di
pochi anni prima, mette in piedi nella sala cinematografica che gestisce la
prima di un film che celebra le gesta di un eroico militare tedesco,
affinché tutta la gerarchia nazista al gran completo vi si rechi, e la si
possa far esplodere insieme al cinema stesso in un ineffabile complotto che
coinvolge l’intero mondo teutonico della celluloide dell’epoca. La cinefilia
è esplicitamente tematizzata (“Siamo in Francia, noi rispettiamo i
registi”): i film di Pabst una cinefila ebrea li mostra lo stesso, anche se
lui è tedesco: ciò che il cinema ha di universale è proprio questo
sciogliere tutte le differenze e le identità del visibile in un medesimo
godimento. Godimento che è ovviamente la cifra chiave del fare cinema di
Tarantino, l’unica semplice complicatissima sostanza che informa ognuno dei
suoi innumerevoli guizzi di regia – e così in questo film americani, indiani
ed ebrei si scambiano le parti con misurata confusione, in un medesimo
elogio della Minoranza (in senso soprattutto deleuziano). Minoranza che è,
non a caso, la dimensione in cui è incastrato, oggi, il cinema – con il
quale comunque Tarantino “marchia a fuoco” (cfr. il finale, irrivelabile) lo
spettatore rendendolo complice del suo infernale godimento pellicolare,
togliendogli l’innocenza e soprattutto qualunque illusione di “purezza”: la
resistenza di fatto coincide con questo sporcarsi le mani. Chi si illude di
essere puro, anche se imbattibile come l’”acchiappa-ebrei” tedesco Landa
(interpretato dall’incredibile rivelazione austriaca Christoph Waltz),
finisce beffato dall’essere caratterizzato con tutti i cliché possibili
delle sue “vittime” (gli ebrei).
Mai come qui Tarantino è virtuoso nel saper “cucinare” la sostanza
misteriosa del Godimento della pelle del cinema (“Sono schiavo delle
apparenze”, proclama alla fine Aldo Raine) sapendo alternare lunghi dialoghi
sapientemente stiracchiati come un elastico a scene di violenza improvvisa
montate con imprevedibilità di altri tempi (e di altre latitudini). Non ci
sono buoni né cattivi, ma solo diversi modi di avere a che fare con
quell’”essere sopra le righe” che è, in definitiva, l’esistenza – e che
Tarantino mette in scena in ogni secondo, spiazzando completamente la
situazione da un istante all’altro attraverso un leggero movimento di
macchina, un inserto che si conficca inaspettato… E’ questo “essere sopra le
righe”, tanto generico quanto carnale, a compiere il miracolo
dell’universalità; è questo il collante ideale per quella “comunità di non
appartenenti” che, a prescindere delle identità, dei ruoli e delle
circostanze geografiche, costituisce l’humus della resistenza. E questo
“essere sopra le righe”, questo essere in eccesso rispetto a quel visibile
che si è, è la definizione stessa del cinema secondo Tarantino. E non solo.
14:05:2009
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