
Il film ripercorre gli ultimi anni di vita del presidente del Banco Ambrosiano
Roberto Calvi (interpretato da Omero Antonutti): La bancarotta dell’istituto,
l’arresto (e successiva condanna a quattro anni) per esportazione illegale
di capitali, gli intrallazzi con le finanze vaticane (in primis
lo IOR di Monsignor Paul Mrcinkus, amico di Calvi), la fuga disperata
all’estero e il ritrovamento del cadavere, il 17 giugno 1982, appeso
con una corda al collo sotto il ponte dei Frati Neri di Londra.
Nonostante le apparenze, una sentenza del tribunale di Milano riconoscerà
che non si è trattato di un suicidio. L’intenzione di mettere le mani
su quel torbido impasto di criminalità, malaffare e mala politica che
fa da sfondo ad una delle pagine più nere e misteriose dell’Italia repubblicana
era venuta al regista già intorno alla metà degli anni ottanta. Il progetto
si era poi arenato in una serie di difficoltà produttive molto probabilmente
legate a motivi di opportunità politica. Solo oggi, dunque, è potuto arrivare
sugli schermi questo I BANCHIERI DI DIO, un condensato di tutta la buona
volontà e di tutti i limiti del cinema "di impegno civile" a cui ci ha
abituato Ferrara fin dai tempi di CENTO GIORNI A PALERMO. Il genuino spirito
di denuncia degli intrighi del potere che anima il film, l’accuratezza
del lavoro sulle fonti (le carte processuali), la scelta di rappresentare
la vicenda con pignoleria documentaristica, si scontrano con una confezione
da b-movie paratelevisivo, dal tono sempre fastidiosamente didascalico
e di una verbosità fuori misura. I momenti di alleggerimento riflessivo
(che consentano anche allo spettatore meno avvezzo alla vicenda di riordinare
le idee) sono troppo pochi e alla fine si esce dalla sala più rintronati
che indignati per il "marcio" che il film vorrebbe riportare a galla.
Ma c’è di più. Oltre allo svantaggio di arrivare tardi, la vicenda narrata
non riesce mai a elevarsi a metafora di qualcosa di più generale e che
potrebbe ben adattarsi anche a questi nostri tempi. Quando poi entrano
in scena i sosia di Andreotti e Craxi (il Santo Padre è inquadrato sempre
di schiena "per rispetto") si sfiorano i confini del trash. Con
tali premesse va da se che I BANCHIERI DI DIO rischia di essere rifiutato
dal pubblico e di passare inosservato, con buona pace dei quei "poteri
forti" che a suo tempo ne osteggiarono la realizzazione. Ma al di là di
queste considerazioni, che Roberto Calvi emerge dal film di Ferrara? Sicuramente
un uomo molto contraddittorio. "Eminenza grigia" nel mondo dell’alta finanza,
pedina (ma non solamente vittima) di un gigantesco intrigo internazionale
(che coinvolgeva la P2, la mafia, i servizi segreti, il vaticano, i partiti
di maggioranza, il traffico d’armi, l’appoggio finanziario a dittature
sudamericane, e altro ancora), avido di potere e caparbiamente deciso
a non mollare l’osso, ma anche uomo che nella difficoltà si dimostra fragile
e indeciso, padre sensibile e marito fortemente condizionato dalla moglie
petulante (una convincente Pamela Villoresi). E queste contraddizioni
sono ben espresse da Omero Antonutti in una scena emblematica. Durante
una discussione con la moglie, Calvi prima scoppia pateticamente a piangere
come un bambino per poi, sul consiglio di lei a lasciare l’Italia, voltandosi
verso la telecamera e uscendo dalla semioscurità che gli nasconde il volto,
affermare con tono perentorio: "No! Non li lascio andare così facilmente
dieci anni di potere". Miseria e orgoglio di un uomo e del suo film.
Voto: 13/30
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