VENEZIA.66

 

BAD LIEUTENANT:
PORT OF CALL NEW ORLEANS

di Werner Herzog
Stati Uniti 2009, 121'

 

In Concorso

 

30/30

Dopo la morte di Klaus Kinski, Herzog ha capito che l’ultima frontiera rimasta era l’anonimato. E infatti, di tanto in tanto, giusto quando si sente in corpo l’umore e la salute giusti per sentirsela di scalare le montagne, anziché compiere le sue solite imprese impossibili si cala anima e corpo in ciò che non ha né anima, né corpo. Ecco allora i suoi sublimi film “spielberghiani”: Invincible e Rescue Dawn.

Ed ecco allora uno pseudo-remake de Il cattivo tenente di Ferrara. Un poliziesco di quelli con lo stampino, col poliziotto sospeso tra legge e fuorilegge che la cocaina fa sbandare e redimere. Ma laddove Ferrara con la sua cattolicissima iconolatria non riusciva a resistere e faceva apparire Gesù Cristo sanguinante dentro una chiesa per indicare che a suo modo anche il poliziotto era così, Herzog stavolta va molto oltre.

Cioè, sta molto al di qua. Rinuncia all’eccesso visivo: non ne ha bisogno. L’eccesso è tutto dentro la narrazione. La solita ricerca herzoghiana di ciò che è smisurato, sublime, “bigger than life”, Bad Lieutenant non la compie attraverso qualche magniloquenza inesprimibile, nella flagranza di qualche esistente fuori dalla norma o dal racconto, ma nel modo stesso in cui il racconto viene sconcatenato, triturato, ingolfato. Certo, ci sono le solite escrescenze corporali, le accensioni di presenza brutale e fisica del mondo cui Herzog ci ha sempre abituato. Esse però, anziché installarsi monumentali davanti ai nostri occhi, sono come scintille che schizzano via per spegnersi subito dopo. O meglio, le soggettive degli iguana, i funerali voodoo e via delirando, sono qui come la polvere del marmo che scaturisce dallo scalpello usato per scolpire la narrazione. La quale da un lato imposta mille conflitti e non ne risolve neanche uno, dall’altro lato indulge nell’”addiction” del protagonista di risolvere i problemi creando altri problemi, solo per scoprire a un certo punto che proprio quella è la chiave del Miracolo che tutto risolve.

Lo squilibrio, insomma, è tutto dalla parte del racconto. Ma appunto è uno squilibrio così squilibrato che finisce per ritrasformarsi in equilibrio: i conti alla fine tornano tutti, proprio tutti. Il cattivo tenente verrà promosso a capitano non perché paladino della legge, ma perché così attaccato alla legge da farsi trasportare da lei dentro e fuori dalla legge stessa, come nella magnifica scena in cui Herzog ci attacca alla pelle di Cage mentre passa in modo lento e inesorabile dallo scoprire droga su di una coppietta fermata all’uscita di un locale al semistupro ai danni della ragazza sotto gli occhi del basito fidanzato. Nulla di più lontano da una discesa agli inferi della spirale di droga, debiti, scommesse clandestine, collusione con gli spacciatori e quant’altro in cui incappa il nostro tenente. Nessun compiacimento della perdizione, perché la più regolare delle traiettorie è già in se stessa la perdizione. Per questo, al posto delle solite mostruosità e deformità umane animali e vegetali piazzate davanti all’obbiettivo, Herzog rivela la mostruosità endemica del più ordinario dei percorsi, del più ordinario dei plot polizieschi. Non è che ci si perda in lungaggini o sfrangiature. No: Herzog affronta ogni scena con caparbia diligenza, e la porta a termine con rispettoso scrupolo. Solo che è come si seguisse una linea retta che, senza che ce ne accorgiamo, si incurva come si incurva l’universo. Come se si camminasse in montagna seguendo una guida alpina che appare talmente sicura di sé che per un po’ smettiamo di pensare a dove si sta andando, poi quando d’un tratto chiediamo alla guida “dove stiamo andando?” ci si sente rispondere “non lo so”. Analogamente, la perdita totale del controllo di sé di Cage non è oggetto di attenzione morbosa, ma dello sguardo attonito e meravigliato su quanto sia normale essere completamente fuori di sé, e su quanto fuori dai gangheri sia la normalità. La stupenda ultima inquadratura (che non riveleremo) ne è il sigillo esplicito e supremo.

La linea tra il racconto (e quindi il linguaggio, e quindi la legge) e il suo eccesso si perde, evapora nelle spire di un racconto che non sta da nessuna parte, né in cielo né in terra. L’eccesso è come in cielo così in terra – e addirittura nel terra-terra di un poliziesco di routine, senza bisogno di cristi sanguinanti fatti apparire nelle chiese.

 

06:09:2009

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Venezia, 02/12 settembre 2009