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un bacio romantico di Won Kar-wai con Rachel Weisz, Natalie Portman, Jude Law |
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28/30
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Ha aperto la kermesse My Blueberry
Nights di Wong Kar-wai, esperimento del grande esteta cinese
in terra statunitense. Lo sappiamo già: molti storceranno il naso ribadendo
la propria (ovvia) preferenza per il Wong dei primi film, di cui per qualche
ragione credono di detenere il marchio “DOC”. Si lamenterà, insomma, che
Wong si sta ripetendo, ed è anche vero, ma il punto è che solo ora si ripete
Wong comincia a diventare interessante. Sono le variazioni minime quelle che
contano, non la rivendicazione del proprio inutile totem autoriale. La
storia è la stessa di tutti i film di Wong, come sempre frammentata in più
storie tessute insieme da più voci over: la solita malinconia
dell’amore impossibile e della solitudine coniugate al plurale. Jude Law e
Norah Jones, entrambi camerieri, entrambi amanti non corrisposti, fanno da
cornice tutt’altro che disinteressata all’usuale moltiplicarsi di vane pene
d’amore. Wong, accortosi di essersi infilato in un vicolo cieco, reagisce a
quest’impasse nel migliore dei modi: cacciandocisi dentro sempre più
testardamente e a corpo morto, come nel buco nero che era 2046. Moltiplica i
doppi, i riflessi, le corrispondenze gemellari tra i personaggi, fino a
specchiarsi genialmente in quel doppio inquietante dello stile di Wong che è
Las Vegas, trionfo assoluto di artificio, luci al neon, superfici troppo
riflettenti, simulacri. Non poteva insomma che essere Las Vegas la meta
ultima di questo bizzarro road movie (sì, proprio di questo si
tratta, di un film intimista da camera deformato e stiracchiato sulla
frontiera americana fino alla dissoluzione catartica), che inizia
comprimendo tutto l’universo di Wong in un angusto localino (quello di Jude
Law), in una boccia di vetro piena di chiavi che incarnano mille storie
possibili (tutte naturalmente infelici), guardate di sbieco attraverso
l’affollarsi, più claustrofobico che mai, di fuochi d’artificio figurativi,
riflessi, luci al neon, discrepanze di fuoco, angolazioni strane e tutto ciò
a cui ci ha abituato Wong da anni. Il suo gioco, alla fine, è quello di
mostrarci che da questa compressione dello spazio, centripeta fino
all’ossessione, non è immune l’estensione spaziale (centrifuga fino alla
follia) sconfinata delle strade, del deserto, dei mille luoghi americani che
la protagonista attraversa. Il che significa che il falso, dopo essersi
sbizzarrito in tutti i modi possibili, si riconcilia col vero (vedi il
personaggio di Natalie Portman, uguale e contrario alla protagonista).
Ennesimo gioco di specchi che rilancia, estremizza, riscrive e riapre
l’inconsolabile attaccamento all’idea di perdita che è il melodramma.
L’amore e il lamento, finalmente, si specchiano fino a coincidere. 16:05:2007
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My Blueberry
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