“Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di
tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra”
(Gen 11, 9)
Deserto del Marocco. Due ragazzini armeggiano con un fucile, mentre badano
alle pecore su un altopiano e colpiscono per gioco un pullman di turisti
americani su una strada a grande distanza.
Marocco. Una coppia americana ha appena perso il loro terzo figlio nato da
poco e cerca in un viaggio il modo di dimenticare e di riconciliarsi.
California, USA. I due piccoli figli della coppia americana si ritrovano al
matrimonio del figlio della loro tata messicana, da San Diego fino oltre
frontiera e poi in un burrascoso viaggio di ritorno.
Tokio, Giappone. Una ragazza sordomuta non riesce a superare il suicidio
della madre.
Tre continenti, quattro culture e quattro lingue diverse, migliaia di
chilometri di distanza, ma un solo mondo e la stessa solitudine.
Il fucile che accomuna le quattro storie del film è in realtà soltanto un
pretesto per poter raccontare di fragili legami padre-figlio, invidie
fraterne, odio razziale e crisi coniugale, sempre simili e riconoscibili,
pur viaggiando da un parte all’altra della Terra, dai deserti assolati e dai
colori virati al giallo del Marocco, alla dominante rossa dei villaggi
messicani, all’ipertecnologica Tokio illuminata da luci artificiali.
Il titolo di ispirazione biblica farebbe pensare in un primo momento alla
diversità linguistica e culturale, la quale però non deve essere
interpretata come punizione o castigo divino, ma come una necessaria e
desiderata ricchezza dell’umanità da contrapporre all’uniformità linguistica
e culturale che è segnale dell’imperialismo.
Così in BABEL le differenze linguistiche che i continui sottotitoli del film
sottolineano, in realtà non esistono o per lo meno vengono facilmente
superate. Brad Pitt ha un interprete al proprio fianco che non solo gli
permette di comunicare e muoversi agilmente nel villaggio marocchino, ma ne
diventa anche un valido confidente. La sordomuta giapponese ha i
videotelefonini a disposizione per comunicare in ogni momento con le amiche
con il linguaggio dei gesti, un linguaggio che sembra essere alla portata di
tanti di quelli che le girano intorno, al punto che a scappare ed essere
emarginati sembrano piuttosto quelli che non lo conoscono. I bambini
americani, dapprima spaventati dal folclore della gente messicana, riescono
presto ad integrarsi, divertirsi e comunicare in mezzo ai loro coetanei e
agli adulti. BABEL non è quindi da intendersi come un film sulle difficoltà
di comunicazione dovuto alle distanze geografiche, alle differenze culturali
o alle diversità linguistiche. è un film sulla difficoltà di accettare se
stessi e mostrarsi liberamente e apertamente. In quest’ottica appaiono
universali la difficoltà di Brad Pitt di accettare la perdita del figlio e
la sua fuga sconsiderata, il silenzio e il disprezzo di Cate Blanchett nei
confronti del marito, la rabbia segretamente covata e mai espressa per
“quieto vivere” da parte di Gael Garcia Bernal nei confronti del trattamento
riservato ai messicani dagli Stati Uniti, l’invidia tra fratelli, la gelosia
e la ribellione verso un padre padrone nell’episodio marocchino, un lutto
non ancora superato e l’utilizzo del sesso per mascherare una ricerca di
contatto affettivo di cui si sente il bisogno nell’episodio giapponese;
tormentati silenzi che non sono dovuti all’impossibilità di comunicare, ma
all’incapacità a farlo finché l’imminente tragedia non lo renda inevitabile
e, a quel punto, il destino permette di arrivare alla consapevolezza, alla
morte, alla riconciliazione o alla purificazione.
Voto: 29/30
28:10:2006 |