BABEL

di Alejandro Gonzales Inarritu
Con Brad Pitt, Kate Blanchett

di Gabriele FRANCIONI


L'illusione di ricucire attraverso una tessitura narrativa multicentrica e a trama fitta il non lineare caos etno-etico della contemporaneità illusoriamente globalizzata, è il motore spento di un meccanismo filmico costruito per muoversi come una locomotiva (il racconto dei coniugi americani in Marocco), che man mano dovrebbe raccogliere e portare alla meta i cento convogli umani sparsi nella landa testuale di un'umanità inaridita e sorda, persa nelle traduzioni fallaci di una lingua sempre meno comune quanto più aspro è il conflitto fra culture, credi, ideologie.
Il regime consolatorio che sembra instaurarsi verso la fine del film non ci convince neanche un po', così come, specularmente, la presunta chiarezza enunciativa della prima parte.
Ciò che Inarritu e lo sceneggiatore-scrittore Guillermo Arriaga architettano è un attentato all'intelligenza dello spettatore accorto, portato a termine predisponendo dispositivi narrativi e trucchi lungo l'intero territorio audiovisuale sul quale BABEL procede zoppicando, nel tentativo, fallito, di portare a compimento quella sorta di saga inconscia sulla Moderna Tragedia Umana Privata & Pubblica scritta a più mani da registi di variabile grandezza nel corso degli ultimi due lustri, diciamo dal 1993 di AMERICA OGGI in poi.
Robert Altman, da M.A.S.H. a NASHVILLE, da I PROTAGONISTI al DOTTOR T E LE DONNE, non ha mai abbandonato l'idea di un cinema corale, ma è sempre stato capace di seguire con ironia e disincanto TUTTI i personaggi che attraversavano il suo campo visivo, mentre ciò che difetta ai presunti co-autori della suddetta saga (tutto P. T. Anderson, il Sam Mendes di AMERICAN BEAUTY, lo scaltro Paul Haggis di CRASH e altri minori) è proprio la leggerezza e lo sguardo distaccato.
Altra netta differenza tra il Maestro e gli allievi è interna al P.O.V. dal quale si osserva tale umanità sofferente: Altman tiene sempre tutti sotto osservazione, li lascia attraversare lo spazio filmico contemporaneamente e liberamente, li fa parlare in una continua sovrapposizione di voci e suoni.
Gli altri, all'opposto, costruiscono gabbie spaziali e incastri tematici assolutamente asfittici entro i quali gli attori seguono uno spartito rigidissimo (Anderson a volte si salva, vedi BOOGIE NIGHTS, slabbrato in partenza grazie all'assunto anomalo), che dovrebbe partorire l'effetto-sorpresa ogni 15 minuti come conseguenza diretta di dialoghi-e-situazioni - ma non di un linguaggio visuale innovativo! - intelligenti & inusitati & insapettati & scaltri.
Cinema, appunto, scaltro, artefatto, costipato: cinema dove manca l'aria, costruito a tesi quando dovrebbe essere il viatico di una spontaneità fluida scaturita dalla libera osservazione aperta di esseri umani in parata dolente.
Inarritu & Arriaga sembrano puntare diretti verso ambizioni individuali (un futuro Oscar à la CRASH, ad esempio) e non verso una discussione critica sui problemi sollevati: si leggano, a proposito, le dichiarazioni molto diplomatiche di regista e sceneggiatore, intervistati a Cannes e nei mesi seguenti, dirette ad evitare il contenzioso sul dramma degli immigrati clandestini in America e, quasi, a ribaltare la responsabilità dello status quo, facendola passare dagli Stati Uniti al Messico(!).
Si guardi l'ambiguo tratteggio della coppia americana in "trasferta riconciliativa" in Marocco (meta assai improbabile in simili frangenti, ma anche furbescamente neutrale rispetto alle più problematiche Algeria e Tunisia, per non parlare del resto del mondo islamizzato): pesa di più la solidarietà posticcia tra l'orrido Pitt-bullo e l'ospitale maghrebino o il diffuso e banalmente metaforico riferimento al vittimismo degli Usa colpiti dal terrorismo?
è assai facile seminare quesiti in quantità e non trarre conclusione alcuna, con la scusa del mondo ridotto a "Babele" globale in cui s'annulla il concetto di "responsabilità" e in cui è solo la casualità a farsi motore di indicibili tragedie. è comodo spostare tutto sul piano del privato, che pochissimo ci racconta e nulla ci commuove, se il bersaglio è altrove, ma mirare ad esso significherebbe sicuro suicidio artistico. è pilatesco lasciare che a rappresentare la "colpa" sia solo un bambino.
è irritante scritturare un cast sempre più contaminato, anche rispetto a 21 GRAMS, da presenze raccatta-pubblico (il citato signor Aniston-Jolie, appena appena spostato dall'Africa delle adozioni della moglie al Nord Africa dei set filmici: insomma, un moderno paladino dell'"impegno" da tabloid); presenze raccatta-Oscar (Blanchett); presenze raccatta-nuova-audience-in-allettanti-nuovi-mercati-estremorientali (i bravissimi Kikuchi Rinko e Yashuko Koji, rispettivamente sordomuta e padre della stessa).
Senza contare che certi attori accettano la parte in tali film corali e "impegnati" per rifarsi una verginità e fuggire, al contempo, dalla routine hollywoodiana dei "signori smith", ma non apportano variazione alcuna rispetto alle loro "Modestissima Gamma Espressiva und Gommosa Fisicità".
Insomma, il film pesa meno di 21 GRAMS e, ovviamente, del riuscitissimo AMORES PERROS, avallando la tesi di Inarritu & Arriaga come coppia d'immigrati messicani che hanno passato il confine in prima classe, sdoganati da quella prima pellicola e, in definitiva, desiderosi di un riconoscimento nel paese dei balocchi piuttosto che di una miglior sorte per quello d'origine.
Si veda, al proposito, il personaggio della tata stupida ma buona, salvata dal padrone statunitense reso tollerante dalla vicenda della moglie "sparata" da un imberbe bulletto maghrebino (da cui, tra l'altro, si deduce che siamo tutti cattivi, ma abbiamo la speranza concreta di diventare buoni se ci impallinano la consorte o il fratellino, eventi all'ordine del giorno, altrimenti no) : è assai grave constatare il punto di vista degli autori, che vorrebbero far passare l'idea di un padre di famiglia Made-in-Usa prima redento, poi coraggioso e infine improvvisamente aperto al perdono multietnico, mentre la suddetta colf dovrebbe rappresentare l'inettitudine di un popolo incapace d'iniziativa e di orientamento nel mondo (si veda la sequenza irritante dei bambini lasciati a cuocere sotto il sole del deserto, il vagare senza meta della donna messicana, etc).
Arriaga, seguendo la logica delle sue stesse affermazioni, e Inarritu sono "quelli che ce l'hanno fatta" e sentirli parlare di rimedi del problema-clandestini attraverso l'istituzione di "permessi d'immigrazione temporanea" dà i brividi, come danno i brividi, in termini di "messaggio" veicolato dalla pellicola, la tata=Messico Inetto e Pitt=Stati Uniti Land of The Free.
Diamo due anni alla coppia per arrivare alla statuetta losangelina, ma con un cast passato in candeggina...

Voto: 20/30

31:10:2006


P.s. Il film ipotetico sarebbe così: in una grande città americana alla deriva (potrebbe essere San Francisco, ma non la Sucker Free City di Spike Lee) la Jolie con prole è una Madre Wasp, però malata, che permette alla badante irachena di portare i figli ai grandi magazzini; Madonna (cameo) è l'italoamericana logorroica che ha subìto un qualche torto dal marito ubriaco (Pandolfini, ex di Angelina), per cui sbatte la porta e va anche lei al supermercato, dove lavora il fratello, con il vero bimbo David al seguito; George Clooney veste i panni del reporter cinico che casualmente transita davanti al Mall della downtown. Dopo aver investito un mafioso russo ma buono (Tim Roth?) che andava a curare la fidanzata - Jolie - nota del fumo che si alza dal reparto-videogiochi. I bambini là dentro sono in pericolo mentre comperano la Playstation 5 (assemblata sottocosto in India), ma il fratello di Madonna (Nicolas Cage, ex-alcolista e quindi amico del cognato) si inventa eroico commesso di supermercato: salva tutti i bambini e pure alcuni anziani portoricani con l'aiuto di Clooney redento grazie all'incidente in cui ha quasi ammazzato il russo, durante un incendio appiccato da innocenti ragazzetti di Chinatown.
Il finale: nessuno ha colpa.
Solo il sindaco (Al Pacino con moglie una perfida Sharon Stone) si sente in colpa per non aver saputo gestire le varie etnie e aver lasciato costruire il Mall su una zona vincolata a parco e si butta dal grattacielo del Municipio, ma lo salva un camion in transito pieno di metaforico cotone guidato da Morgan Freeman.

P.p.s. Al di là dell'uso funzional-narrativo dell'handicap della ragazzina (incomunicabilità lost in translation, silenzi nel caos), Inarritu & co. dovrebbero spiegarci tutto il segmento giapponese di BABEL, pretestuoso e slegato dal resto del film, se non per il sottilissimo link del fucile regalato dal padre della sordomuta al genitore del giovane assassino, durante una plausibilissima battuta di caccia in Marocco (...).
Sembra un modo come un altro per garantirsi visibilità anche presso il pubblico giapponese, niente di più.

BABEL
Regia: Alejandro González Iñárritu
Anno: 2005
Nazione: Messico/USA
Durata: 135'
Data uscita in Italia: 27:10:2006
Genere: Drammatico