L'illusione di ricucire attraverso una tessitura narrativa multicentrica e a
trama fitta il non lineare caos etno-etico della contemporaneità
illusoriamente globalizzata, è il motore spento di un meccanismo filmico
costruito per muoversi come una locomotiva (il racconto dei coniugi
americani in Marocco), che man mano dovrebbe raccogliere e portare alla meta
i cento convogli umani sparsi nella landa testuale di un'umanità
inaridita e sorda, persa nelle traduzioni fallaci di una lingua sempre meno
comune quanto più aspro è il conflitto fra culture, credi, ideologie.
Il regime consolatorio che sembra instaurarsi verso la fine del film non ci
convince neanche un po', così come, specularmente, la presunta chiarezza
enunciativa della prima parte.
Ciò che Inarritu e lo sceneggiatore-scrittore Guillermo Arriaga architettano
è un attentato all'intelligenza dello spettatore accorto, portato a termine
predisponendo dispositivi narrativi e trucchi lungo l'intero territorio
audiovisuale sul quale BABEL procede zoppicando, nel tentativo, fallito,
di portare a compimento quella sorta di saga inconscia sulla Moderna
Tragedia Umana Privata & Pubblica scritta a più mani da registi di variabile
grandezza nel corso degli ultimi due lustri, diciamo dal 1993 di AMERICA
OGGI in poi.
Robert Altman, da M.A.S.H. a NASHVILLE, da I PROTAGONISTI al DOTTOR T E LE
DONNE, non ha mai abbandonato l'idea di un cinema corale, ma è sempre stato
capace di seguire con ironia e disincanto TUTTI i personaggi che
attraversavano il suo campo visivo, mentre ciò che difetta ai
presunti co-autori della suddetta saga (tutto P. T. Anderson, il Sam
Mendes di AMERICAN BEAUTY, lo scaltro Paul Haggis di CRASH e altri minori) è
proprio la leggerezza e lo sguardo distaccato.
Altra netta differenza tra il Maestro e gli allievi è interna al P.O.V.
dal quale si osserva tale umanità sofferente: Altman tiene sempre tutti
sotto osservazione, li lascia attraversare lo spazio filmico
contemporaneamente e liberamente, li fa parlare in una continua
sovrapposizione di voci e suoni.
Gli altri, all'opposto, costruiscono gabbie spaziali e incastri tematici
assolutamente asfittici entro i quali gli attori seguono uno spartito
rigidissimo (Anderson a volte si salva, vedi BOOGIE NIGHTS, slabbrato in
partenza grazie all'assunto anomalo), che dovrebbe partorire
l'effetto-sorpresa ogni 15 minuti come conseguenza diretta di
dialoghi-e-situazioni - ma non di un linguaggio visuale innovativo! -
intelligenti & inusitati & insapettati & scaltri.
Cinema, appunto, scaltro, artefatto, costipato: cinema dove manca l'aria,
costruito a tesi quando dovrebbe essere il viatico di una spontaneità fluida
scaturita dalla libera osservazione aperta di esseri umani in parata
dolente.
Inarritu & Arriaga sembrano puntare diretti verso ambizioni individuali (un
futuro Oscar à la CRASH, ad esempio) e non verso una discussione
critica sui problemi sollevati: si leggano, a proposito, le dichiarazioni
molto diplomatiche di regista e sceneggiatore, intervistati a Cannes e nei
mesi seguenti, dirette ad evitare il contenzioso sul dramma degli immigrati
clandestini in America e, quasi, a ribaltare la responsabilità dello status
quo, facendola passare dagli Stati Uniti al Messico(!).
Si guardi l'ambiguo tratteggio della coppia americana in "trasferta
riconciliativa" in Marocco (meta assai improbabile in simili frangenti, ma
anche furbescamente neutrale rispetto alle più problematiche Algeria e
Tunisia, per non parlare del resto del mondo islamizzato): pesa di più la
solidarietà posticcia tra l'orrido Pitt-bullo e l'ospitale maghrebino o il
diffuso e banalmente metaforico riferimento al vittimismo degli Usa colpiti
dal terrorismo?
è assai facile seminare
quesiti in quantità e non trarre conclusione alcuna, con la scusa del mondo
ridotto a "Babele" globale in cui s'annulla il concetto di "responsabilità"
e in cui è solo la casualità a farsi motore di indicibili tragedie.
è comodo spostare tutto sul
piano del privato, che pochissimo ci racconta e nulla ci commuove, se
il bersaglio è altrove, ma mirare ad esso significherebbe sicuro suicidio
artistico. è pilatesco
lasciare che a rappresentare la "colpa" sia solo un bambino.
è irritante scritturare un
cast sempre più contaminato, anche rispetto a 21 GRAMS, da presenze
raccatta-pubblico (il citato signor Aniston-Jolie, appena appena spostato
dall'Africa delle adozioni della moglie al Nord Africa dei set filmici:
insomma, un moderno paladino dell'"impegno" da tabloid); presenze
raccatta-Oscar (Blanchett); presenze
raccatta-nuova-audience-in-allettanti-nuovi-mercati-estremorientali (i
bravissimi Kikuchi Rinko e Yashuko Koji, rispettivamente sordomuta e padre
della stessa).
Senza contare che certi attori accettano la parte in tali film corali e
"impegnati" per rifarsi una verginità e fuggire, al contempo, dalla routine
hollywoodiana dei "signori smith", ma non apportano variazione alcuna
rispetto alle loro "Modestissima Gamma Espressiva und Gommosa
Fisicità".
Insomma, il film pesa meno di 21 GRAMS e, ovviamente, del riuscitissimo
AMORES PERROS, avallando la tesi di Inarritu & Arriaga come coppia
d'immigrati messicani che hanno passato il confine in prima classe,
sdoganati da quella prima pellicola e, in definitiva, desiderosi di un
riconoscimento nel paese dei balocchi piuttosto che di una miglior sorte per
quello d'origine.
Si veda, al proposito, il personaggio della tata stupida ma buona, salvata
dal padrone statunitense reso tollerante dalla vicenda della moglie
"sparata" da un imberbe bulletto maghrebino (da cui, tra l'altro, si deduce
che siamo tutti cattivi, ma abbiamo la speranza concreta di diventare buoni
se ci impallinano la consorte o il fratellino, eventi all'ordine del giorno,
altrimenti no) : è assai grave constatare il punto di vista degli autori,
che vorrebbero far passare l'idea di un padre di famiglia Made-in-Usa prima
redento, poi coraggioso e infine improvvisamente aperto al perdono
multietnico, mentre la suddetta colf dovrebbe rappresentare l'inettitudine
di un popolo incapace d'iniziativa e di orientamento nel mondo (si
veda la sequenza irritante dei bambini lasciati a cuocere sotto il sole del
deserto, il vagare senza meta della donna messicana, etc).
Arriaga, seguendo la logica delle sue stesse affermazioni, e Inarritu sono
"quelli che ce l'hanno fatta" e sentirli parlare di rimedi del
problema-clandestini attraverso l'istituzione di "permessi d'immigrazione
temporanea" dà i brividi, come danno i brividi, in termini di "messaggio"
veicolato dalla pellicola, la tata=Messico Inetto e Pitt=Stati Uniti Land of
The Free.
Diamo due anni alla coppia per arrivare alla statuetta losangelina, ma con
un cast passato in candeggina...
Voto: 20/30
31:10:2006
P.s. Il film ipotetico sarebbe così: in una grande città americana alla
deriva (potrebbe essere San Francisco, ma non la Sucker Free City di Spike
Lee) la Jolie con prole è una Madre Wasp, però malata, che permette alla
badante irachena di portare i figli ai grandi magazzini; Madonna (cameo) è
l'italoamericana logorroica che ha subìto un qualche torto dal marito
ubriaco (Pandolfini, ex di Angelina), per cui sbatte la porta e va anche lei
al supermercato, dove lavora il fratello, con il vero bimbo David al
seguito; George Clooney veste i panni del reporter cinico che casualmente
transita davanti al Mall della downtown. Dopo aver investito un mafioso
russo ma buono (Tim Roth?) che andava a curare la fidanzata - Jolie - nota
del fumo che si alza dal reparto-videogiochi. I bambini là dentro sono in
pericolo mentre comperano la Playstation 5 (assemblata sottocosto in India),
ma il fratello di Madonna (Nicolas Cage, ex-alcolista e quindi amico del
cognato) si inventa eroico commesso di supermercato: salva tutti i bambini e
pure alcuni anziani portoricani con l'aiuto di Clooney redento grazie
all'incidente in cui ha quasi ammazzato il russo, durante un incendio
appiccato da innocenti ragazzetti di Chinatown.
Il finale: nessuno ha colpa.
Solo il sindaco (Al Pacino con moglie una perfida Sharon Stone) si sente in
colpa per non aver saputo gestire le varie etnie e aver lasciato costruire
il Mall su una zona vincolata a parco e si butta dal grattacielo del
Municipio, ma lo salva un camion in transito pieno di metaforico cotone
guidato da Morgan Freeman.
P.p.s. Al di là dell'uso funzional-narrativo dell'handicap della ragazzina
(incomunicabilità lost in
translation, silenzi nel caos), Inarritu & co. dovrebbero spiegarci
tutto il segmento giapponese di BABEL, pretestuoso e slegato dal resto del
film, se non per il sottilissimo link del fucile regalato dal padre
della sordomuta al genitore del giovane assassino, durante una
plausibilissima battuta di caccia in Marocco (...).
Sembra un modo come un altro per garantirsi visibilità anche presso il
pubblico giapponese, niente di più.
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