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di James Cameron

con Sam Worthington, Sigourney Weaver

Altri interpreti: Giovanni Ribisi, Michelle Rodriguez

di Marco GROSOLI

 

30/30

 

Il divino Terrence Malick, alcuni anni fa, aveva fatto della storia di Pocahontas un impressionante, sublime buco nero che risucchiava in sé tutta la storia degli Stati Uniti. Non solo: essa finiva col risucchiare anche tutta quella che un heideggeriano accademico, quale Malick stesso fu, non avrebbe problemi a chiamare la Metafisica Occidentale, tirandosi dietro in un inarrivabile prodigio vorticoso di puro montaggio maiuscole come Natura, Origine e quant’altro.
Dodici anni dopo aver assestato un capolavoro a suo modo definitivo (e che si capirà bene solo tra qualche decennio) come Titanic, James Cameron sbatte anche lui contro Pocahontas. Dietro la storia del marine mandato dal suo Paese in avanscoperta in una luna lontana per agevolare la conquista armata di una preziosissima pietra locale, e mandato lì grazie a una sorta di incarnazione tramite realtà virtuale nel corpo stesso di uno degli alieni (che assomigliano tanto agli indiani), ma che poi si innamora di un’indigena, è impossibile non vedere la storia che già ispirò The New World. Ma laddove Malick è potentemente filosofico (perché è non solo sensuale, ma al tempo stesso sovranamente anti-sensuale), James Cameron è correttamente, impeccabilmente fantascientifico. A lui interessa la cara, vecchia scissione umano/non-umano. E sui vorticosi (al solito) giochi di specchi tra i due termini di questa opposizione, vi innesta non solo la solita opposizione natura/civiltà, ma anche la altrettanto cara e vecchia scissione tra sogno e veglia.
Come sta facendo da qualche film in qua quel grandissimo archeologo che è Robert Zemeckis, Cameron infatti fa del suo protagonista una inequivocabile allegoria dello spettatore. Che si “addormenta” (leggi: sospende l’incredulità) e grazie al 3D viene catapultato col suo stesso corpo in un corpo altrui, quello di colui con il quale si identifica sullo schermo. Il film infatti, oltre al ricorrente leitmotiv degli occhi che si aprono e si chiudono per passare da un lato all’altro della soglia veglia/sogno, umanità/wilderness, persona/avatar, indulge scopertamente e lungamente nell’”ambientarsi” progressivo del protagonista nel suo nuovo corpo – e soprattutto usa magistralmente il montaggio per ricreare la sensazione di abitare uno spazio che non si riesce ad abbracciare se non per scomposti coinvolgimenti nell’azione, e ancora più disordinati shock visivi in un ambiente alieno che non finisce mai di dischiudere le sue meraviglie sconosciute. Il tutto, ovviamente, senza MAI cadere nella triviale tentazione della soggettiva, della facile coincidenza degli sguardi dello spettatore e del protagonista.
Insomma, Cameron insiste nel traghettarci di qua e di là dalla soglia dell’umano. L’incredibile utilizzo della 3d motion capture performance serve proprio a questo: a restituire con allucinante “realismo” le movenze di personaggi che umani non sono. L’integrazione di riprese reali e riprese ricostruite digitalmente a partire dai movimenti degli attori, è davvero spaventosa, miracolosa. L’umano e il non-umano si toccano, perché abbracciati da uno stesso movimento che li anima fisicamente. E allora la frontiera (quella tra umano e alieno, tanto ma tanto parente di quella tra uomo bianco e indiano) viene, insieme, conservata (perché quelli sono pur sempre diversi da come sembriamo noi umani) e revocata. E con lei quella che il cinema ha revocato dal 1895 in poi: realtà e immaginario, sogno e veglia.
Qui interviene la perfetta lucidità politica del film. Come Cameron è da decenni avvezzo a fare, il misticismo sempliciotto New Age, quello dell’”io e l’altro siamo la stessa cosa” e quello degli alberi secolari che canalizzano tutte le “energie” del mondo in un unico calderone panteistico, viene corteggiato, ma puntualmente respinto con inaudita sottigliezza “teologica”. Incarnandoci in quell’avatar che è il marine protagonista, responsabile suo malgrado dello sterminio di una popolazione che ha imparato ad amare follemente, il film ci divide. Ci spacca in due, e pertanto destituisce dall’interno le pretese di panteismo di grana grossa che pure propugna in superficie.
Costruisce insomma un’utopia smisurata che non sta in piedi come realizzazione, ma come lacerazione. E va talmente al fondo di questa utopia, che ritrova quello che avrebbe potuto essere e sembrare il grande assente dell’operazione: il proprio presente storico. Impossibile mancare il sottotesto geopolitico della vicenda narrata, con la superpotenza tecnico-militare disposta a sterminare non si sa quale pianeta-canaglia pur di approvvigionarsi tutta l’energia di cui si ha bisogno e realizzare il proprio sogno totalizzante.
E impossibile mancare il riferimento al presente americano di un altro pressante leitmotiv del film: il protagonista che dice “Arrivati a un certo punto del sogno, è necessario svegliarsi”. Di risveglio in risveglio, Avatar ci appassiona con una straordinaria (e complessa, ma vale la pena inerpicarcisi) riflessione su un paese (e una civiltà) che, sulla scia della tecnica, è partito dall’ottimismo ed è sprofondato nella catastrofe. E che ora deve non solo farsi forza delle radici originarie della tecnica (radici insieme arcaiche e post-umane) ma deve capire che “svegliarsi” non significa “prendere contatto con la realtà”, ma vuol dire “sognare più forte”.
 

29:12:2009

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Regia James Cameron

Stati Uniti 2009, 160'

DUI: 15 gennaio 2010
Sony

Fantascienza