Il divino Terrence Malick, alcuni anni fa, aveva fatto della
storia di Pocahontas un impressionante, sublime buco nero che risucchiava in
sé tutta la storia degli Stati Uniti. Non solo: essa finiva col risucchiare
anche tutta quella che un heideggeriano accademico, quale Malick stesso fu,
non avrebbe problemi a chiamare la Metafisica Occidentale, tirandosi dietro
in un inarrivabile prodigio vorticoso di puro montaggio maiuscole come
Natura, Origine e quant’altro.
Dodici anni dopo aver assestato un capolavoro a suo modo definitivo (e che
si capirà bene solo tra qualche decennio) come
Titanic, James Cameron sbatte
anche lui contro Pocahontas. Dietro la storia del marine mandato dal suo
Paese in avanscoperta in una luna lontana per agevolare la conquista armata
di una preziosissima pietra locale, e mandato lì grazie a una sorta di
incarnazione tramite realtà virtuale nel corpo stesso di uno degli alieni
(che assomigliano tanto agli indiani), ma che poi si innamora di
un’indigena, è impossibile non vedere la storia che già ispirò
The New World. Ma laddove
Malick è potentemente filosofico (perché è non solo sensuale, ma al tempo
stesso sovranamente anti-sensuale), James Cameron è correttamente,
impeccabilmente fantascientifico. A lui interessa la cara, vecchia scissione
umano/non-umano. E sui vorticosi (al solito) giochi di specchi tra i due
termini di questa opposizione, vi innesta non solo la solita opposizione
natura/civiltà, ma anche la altrettanto cara e vecchia scissione tra sogno e
veglia.
Come sta facendo da qualche film in qua quel grandissimo archeologo che è
Robert Zemeckis, Cameron infatti fa del suo protagonista una inequivocabile
allegoria dello spettatore. Che si “addormenta” (leggi: sospende
l’incredulità) e grazie al 3D viene catapultato col suo stesso corpo in un
corpo altrui, quello di colui con il quale si identifica sullo schermo. Il
film infatti, oltre al ricorrente leitmotiv degli occhi che si aprono e si
chiudono per passare da un lato all’altro della soglia veglia/sogno,
umanità/wilderness, persona/avatar, indulge scopertamente e lungamente
nell’”ambientarsi” progressivo del protagonista nel suo nuovo corpo – e
soprattutto usa magistralmente il montaggio per ricreare la sensazione di
abitare uno spazio che non si riesce ad abbracciare se non per scomposti
coinvolgimenti nell’azione, e ancora più disordinati shock visivi in un
ambiente alieno che non finisce mai di dischiudere le sue meraviglie
sconosciute. Il tutto, ovviamente, senza MAI cadere nella triviale
tentazione della soggettiva, della facile coincidenza degli sguardi dello
spettatore e del protagonista.
Insomma, Cameron insiste nel traghettarci di qua e di là dalla soglia
dell’umano. L’incredibile utilizzo della 3d motion capture performance serve
proprio a questo: a restituire con allucinante “realismo” le movenze di
personaggi che umani non sono. L’integrazione di riprese reali e riprese
ricostruite digitalmente a partire dai movimenti degli attori, è davvero
spaventosa, miracolosa. L’umano e il non-umano si toccano, perché
abbracciati da uno stesso movimento che li anima fisicamente. E allora la
frontiera (quella tra umano e alieno, tanto ma tanto parente di quella tra
uomo bianco e indiano) viene, insieme, conservata (perché quelli sono pur
sempre diversi da come sembriamo noi umani) e revocata. E con lei quella che
il cinema ha revocato dal 1895 in poi: realtà e immaginario, sogno e veglia.
Qui interviene la perfetta lucidità politica del film. Come Cameron è da
decenni avvezzo a fare, il misticismo sempliciotto New Age, quello dell’”io
e l’altro siamo la stessa cosa” e quello degli alberi secolari che
canalizzano tutte le “energie” del mondo in un unico calderone panteistico,
viene corteggiato, ma puntualmente respinto con inaudita sottigliezza
“teologica”. Incarnandoci in quell’avatar che è il marine protagonista,
responsabile suo malgrado dello sterminio di una popolazione che ha imparato
ad amare follemente, il film ci divide. Ci spacca in due, e pertanto
destituisce dall’interno le pretese di panteismo di grana grossa che pure
propugna in superficie.
Costruisce insomma un’utopia smisurata che non sta in piedi come
realizzazione, ma come lacerazione. E va talmente al fondo di questa utopia,
che ritrova quello che avrebbe potuto essere e sembrare il grande assente
dell’operazione: il proprio presente storico. Impossibile mancare il
sottotesto geopolitico della vicenda narrata, con la superpotenza
tecnico-militare disposta a sterminare non si sa quale pianeta-canaglia pur
di approvvigionarsi tutta l’energia di cui si ha bisogno e realizzare il
proprio sogno totalizzante.
E impossibile mancare il riferimento al presente americano di un altro
pressante leitmotiv del film: il protagonista che dice “Arrivati a un certo
punto del sogno, è necessario svegliarsi”. Di risveglio in risveglio,
Avatar ci appassiona con una
straordinaria (e complessa, ma vale la pena inerpicarcisi) riflessione su un
paese (e una civiltà) che, sulla scia della tecnica, è partito
dall’ottimismo ed è sprofondato nella catastrofe. E che ora deve non solo
farsi forza delle radici originarie della tecnica (radici insieme arcaiche e
post-umane) ma deve capire che “svegliarsi” non significa “prendere contatto
con la realtà”, ma vuol dire “sognare più forte”.
29:12:2009
|