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di James Cameron

con Sam Worthington, Sigourney Weaver

Altri interpreti: Giovanni Ribisi, Michelle Rodriguez

di Gabriele FRANCIONI

 

30/30

 

Una volta entrati nella nuova carne, lo si è per sempre

 

Avatar sta a Transformers e Redacted come una Biennale di giovani artisti sta ad Art Basel e a Venezia rispettivamente.

 

Muovendosi lateralmente tra affondo concettuale, radicalismo ideologico da una parte ed epos obamiano dall’altra, la pellicola bignami-fantasy del terzo millennio ricalca anche lo scandaglio onnivoro, citazionistico e cinefilo dei vari Peter Jackson, Timur Bekmambetov, Lucas e dello stesso Cameron pre-anni duemila (nonché quello degli artisti visivi dell’era di Cindia) e chiama a raccolta tutti i topoi narrativi ed espressivi di un cinema instabilmente divaricato tra cuore e intelletto, puntando, poi, decisamente a porsi a mo’ di manifesto patho-logico di un cinema che veste l’inganno della meraviglia virtuale come un guanto per entrare chirurgicamente nella nuova carne di un pubblico di minorenni pronti a crescere con sguardo da piccoli cronenberg versione x-box.

 

La ybris naive di Cameron, che continua correttamente a vedere il mondo come accumulo e stratificazione di  livelli etici destinati a schiacciarsi, è quella di spingersi verso altre verticalità da quella della torre sociale o, comunque, nella direzione di laterali - virtuali - abissali alterità: quelle del dialogo globale.

 

Parallelamente, anche quella di vincere la battaglia di un cinema quasi tutto in C.G.I., in cui non esista spazio per miserrime declinazioni del doppio identitario virtuale.

Non si scherza con la playstation dell’Anima: è obbligatorio scegliere un’opzione, o qui o là, nessun veloce trapasso dall’una all’altra.

O bianco o blu, senza vie d’uscita.

Una volta entrati nella nuova carne, lo si è per sempre.

 

La speranza dialettica di The Abyss, dopo decenni di fiumi di sangue bellico che da solo riempirebbe il mare di quel film o del “Titanic”, è la medesima del regista appena trentenne.

L’elezione di un presidente nero, o blu, keniota o Na’vi, prepara effettivamente il terreno migliore a un’opera altrimenti ingombrante se concepita anche solo 13 mesi fa (nonostante i 30mila soldati appena spediti in Afghanistan), ma ciò che sorprende noi e gli stessi Jackson e Spielberg, forse più (anche se diversamente) chiaroscurali dell’autore di “Aliens”, è l’incrollabile ottimismo resistenziale di questo “Lucas n.2” di scuola cormaniana.

 

Anzi, forse è proprio la natura derivativa di un’etica così scolpita che ne fissa i punti di riferimento, posti all’incrocio tra una generica filosofia della frontiera vista, per così dire, dalla parte dei Nativi  e il confronto quotidiano con il kraftwerk.

 

Questa necessità di sporcarsi le mani per lasciare segni epocali, riconoscibili da abissali lontananze culturali quasi fossero riferimenti geodetici per generazioni culturalmente sfilacciate e policentriche, è la medesima di George Lucas.

Pochissimi film, ma ciascuno epitome di qualcosa.

Exempla sparsi in poco spazio, come frutto di una predisposizione compulsiva a licenziare lectiones non magistrales sotto forma di film e per questo (ri)fondative di un terreno culturale dal quale si sono generate.

 

L’accumulo numerico di dati e cifre sull’impegno produttivo richiesto da AVATAR c’interessa zero.

Il più è stato già detto, ma qualcos’altro va comunque annotato.

 

Si parte e siamo già in mezzo a icone sparse con dovizia: dovunque ci muoviamo troviamo un pezzo di “Space Odissey” o un reperto di “Alien”, ormai dati come storia reale e non racconto autoreferenziale.

Anche in questo senso il “virtuale” è nella nostra carne intesa come cervello, mente; lo diamo per scontato perché quei luoghi narrativi, quei paesaggi di un’estetica bidimensionale valgono, per noi, quanto una strada o un palazzo frequentati abitualmente.

 

Fluttuiamo tra Minority Report e Strange Days - script di Cameron - TERMINATOR e TRANSFORMER, per atterrare in aree coppoliane (ovviamente l’abisso di giungle ora apocalittiche) e sfiorare meduse volanti che rimbalzano direttamente dai bordi di The Abyss, ancora una volta.

“Relax, marine!”, e la navicella va, col suo corredo di Sigourney Weaver ed estetica da videogame ultra-avanzato: nessuna ruffianeria verso il pubblico più giovane, ma un modo per indicare la giusta via, evitando altri “prodotti”.

 

L’idea più affascinante è che la scelta per l’opzione virtuale sia doppiamente liberatoria: nel fisico e nella mente.

è chiaro che il marine reduce in carrozzella e già doppio del gemello morto si elevi nel corso della storia abbracciando la causa del popolo blu (l’India, l’Africa, l’Amazzonia, fate voi), ma è altrettanto potente e ben sviluppata la trasformazione nel fisico.

 

Già presente nella sceneggiatura di STRANGE DAYS, il brevissimo segmento del collega di Nero - anch’egli su sedia a rotelle e drogato di  file-video-squid in cui si immagina di correre impossibilmente sulla spiaggia di Venice Beach - è qui portato a compimento.

Lì era la versione primordiale, abbozzata, onanistica di un doppio virtuale cui agganciarsi per poco, salvo ripiombare nella prima carne, quella macilenta e spezzata.

Cameron ci torna su e spicca il volo, legandosi a questa virtualità liberatoria, tridimensionale, neo-carnale, dove le gambe ti ricrescono, lunghe, colorate e potenti.

 

Il popolo blu, l’opzione che rappresenta, ripete il mantra di uno stadio elevato della coscienza,  così necessario in tempo di iterazioni belliche e contrapposizioni tra continenti.

Il dito di E.T., poi di Elizabeth Mastrantonio a fendere l’acqua verticale, diventa fascio di appendici organiche (coda/coda di cavallo) che ci unisce alla Natura, in un’ottica di urgente necessità trasversale (oltre al refrain bellico, c’è ora quello delle conferenze sull’inquinamento del pianeta).

 

Ecco perché questa organicità fatta di piccole liane, filamenti di medusa, rami e radici dialoganti progressivamente ci avvolge, ci cura - come NON riusciva alla natura bloccata e costipata di THE FOUNTAIN -  e ci predispone alla battaglia finale, in cui il sistema di meccanismi monoliticamente semoventi verso universi che non si vuole conoscere andrà a incagliarsi in quella ricca matassa di volontà resistenziali.

 

Curvo e morbido batte squadrato e duro.

 

Il protagonista è puro-infantile come il Keanu Reeves di Point Break (altro script cameroniano), di cui cita almeno una battuta (“We’re wastin’time, then…”).

Il film ci si dispiega davanti agli occhi come l’HOWLING CASTLE di Miyazaki, di cui riprende montagne e grumi di terra sospesi e volanti tra i quali il neo-guerriero vola come un piccolo grande dustin hoffman del nostro millennio.

This land is OUR land”: c’è posto anche per Woody Guthrie e altri, in AVATAR, ma tutto fa corpo e non rimane slabbrato, ai bordi della scena.

 

Lo scontro finale, dopo la storia d’amore con Neityri/Pocahontas e una teoria di sacrifici necessari (Ripley traghettata direttamente da ALIEN, a conferma di questa ormai stabile realtà parallela costruita su film)  vede sconfitto il Cameron sghembo e impacciato di TERMINATOR di fronte all’agilità neo-neo-neo dei sauri volanti e degli stessi uomini blu, cioè, fuor di metafora, l’Africa e l’India che prima o poi prenderanno definitivamente il posto di un Occidente stanco, con buona pace dei sogni di eternità.

 

Ci batterà il “network” di alberi e terra, umani e natura, che agiscono all’unisono, ma non riescono a salvare Sigourney Weaver: anche quella è, seppur necessaria, la morte del primo cinema cameroniano.

Il confronto con la “Madre”, che qui potrebbe salvarla e tenta di farlo,  termina nel sacrificio ribaltato della nostra cultura a favore di quella che ci sostituirà.

Il popolo blu è “made for life”, Terminator e Ellen Ripley vanno invece sulle strade della Morte, persi negli oscuri metallici meandri di una tecnologia arretrata e cupamente destinata alla sconfitta.


Non vogliamo sostare nella parte doc-realistica del film, dalla quale si fugge con ben maggiore convinzione rispetto all’analoga sezione di TITANIC, coesa e funzionale al racconto complessivo.
La pretesa di scientificità di nuovi metodi d’indagine e “scandaglio” crolla di fronte a una scelta che è solo nella mente e nel cuore dell’ uomo bianco in procinto di diventare di un bel blu Klein.


Londra, 18:12:2009

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Regia James Cameron

Stati Uniti 2009, 160'

DUI: 15 gennaio 2010
Sony

Fantascienza