Peccato per il bravo Baz
(Luhrmann). Avrebbe dovuto farci sognare questa - lunghissima - pellicola
ambientata nello sconfinato Outback australiano poco prima dello scoppio
della Seconda Guerra Mondiale. Nelle intenzioni una storia ricca di
emozioni, avventura, colpi di scena e romanticismo.
Australia - 1939. Dall'Inghilterra arriva un'impettita e aristocratica Lady
Sarah Ashley (Nicole Kidman) sulle tracce di un marito ufficialmente in
affari bovini, ma sospettato di tradimento e che la sola testardaggine di
una moglie orgogliosa può pretendere di ricondurre all'ovile. Inutile
anticipare che il suo destino sarà ben altro fra una scottante proprietà
ereditata nei Northern Territories, una travolgente passione per l'aitante
Mandriano rimastole per consolazione (Hugh Jackman) e circa millecinquecento
capi di bestiame da radunare e guidare fino al porto di Darwin. Ad aiutarla,
un magico bambino meticcio che in lei risveglia un sopito istinto materno,
mentre ad incombere sullo sfondo è la minaccia di una tragedia imminente
(l'aviazione giapponese bombardava Darwin il 19 febbraio del 1942, due mesi
dopo Pearl Harbour). Sotterraneo e liberatorio - anche perché pone fine al
tormentone - il canto dell'aborigeno alla sua terra, che nella figura del
vecchio Nonno sciamano trova un invito a spogliarsi delle lenti occidentali
per lasciarsi guidare dal richiamo del 'Walkabout' - il viaggio rituale che
gli aborigeni compiono nel bush australiano alla ricerca di se stessi e di
un 'oltre' che rimane la sola vera (non) risposta di Luhrmann.
Non si fa mancare davvero nulla questo melodramma dall'investimento titanico
(il film è costato più di 130 milioni di dollari alla produzione e due anni
di fatiche): il western dei mandriani e degli spazi sconfinati, i toni da
commedia brillante nell’incontro/scontro fra i sessi, il melò dell’amore fra
gli opposti, la guerra nell’attacco aereo giapponese a Darwin, e proprio
nella voglia di strafare trova il suo punto più debole.
Tra la tanta carne al fuoco, c'è sicuramente un tema che merita più
attenzione e che rappresenta una ferita ancora aperta in seno al continente
australiano: è il fenomeno della cosiddetta 'generazione perduta', dove per
decenni i figli nati dalla sopraffazione di uomini bianchi su donne
aborigene furono sottratti alle madri per essere consegnati alle mani di
missionari con fine di cancellarne la cultura originaria, nonché l'onta
della loro stessa esistenza per i 'padri' naturali. Ma anche la figura del
piccolo Nullah finisce per toccare le corde sbagliate perché troppo
addolcita nello sguardo e nella trama, è troppo bello ed angelico questo
giovane sciamano per riportarci sinceramente alla crudezza di una violenza
reiterata. Sempre in tema, mi è stato suggerito un lavoro cinematografico di
qualche anno fa che, dopo aver scartabellato fra i blog, segnalo un po' più
volentieri: La generazione perduta
per la regia di Phillip Noyce (2002).
Certo il fascino e la bellezza del Queensland e del Nuovo Galles sono di
grande impatto visivo e non c'è da stupirsi che Tourism Australia abbia
scelto di raccontarli attraverso il talento di un acclamato regista - anche
se si mormora che abbiano dovuto convincerlo a lungo per riscrivere un lieto
fine che ha ritardato l'uscita del film di circa sei mesi, sono cose che non
fanno bene al risultato, e si vede. Peccato per il bravo Baz Luhrmann, ma
peccato anche per noi perché anche se possiamo comprenderlo non possiamo
veramente accettarlo che un film diventi la cartolina pubblicitaria di una
terra, per quanto affascinante e misteriosa. In fondo questo equivale ad
infrangere quel fantomatico patto con il lettore che, se Eco ha ragione, sta
alla base di un buon bosco narrativo: uno spot dura 60 secondi - massimo - e
forse al cinema vogliamo ancora sognare.
17:01:2009
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