
Toccante elegia dell'Arte concepita e interpretata con devozione totalizzante,
dove la bellezza trova una forma assoluta resistente a qualunque ermeneutica
del linguaggio e si asserve sconfitta ad una sinfonia di movimenti, di
avanti e indietro di una macchina da presa che nel ristretto ritaglio
dell'inquadratura riesce ad ingigantire, anzichè limitare, lo sfarzo
e la grandiosità imperiale del Palazzo d'Inverno di San Pietroburgo.
Pietro il Grande, Caterina II, il direttore d'orchestra Valery Gergiev,
le sculture di Canova, i dipinti di El Greco, Rubens, e Van Dick in pose
mai viste, sciami di ufficiali in sublimi uniformi e sfarzose dame sfilano
leggiadri davanti alla tecnologia digitale di quel grande maestro che
è Sokurov per divenire complici inconsapevoli della creazione di
un prezioso oggetto d'arte, trasfigurati nello spazio inconsistente ma
irresistibile dell'assoluto, trasportati oltre lo strascico evanescente
del compiuto dalla levità dell'eleganza, dalla poesia della tristezza,
dalla potenza dell'arte che insegue ciò che è inarrivabile.
Un unico superlativo piano sequenza di novantasei minuti percorre tre
secoli di Russia e di umanità, tra ironia e poesia, riportando
in vita, attraverso una malinconica e appassionata emozione, i relitti
di quella civiltà sontuosa, magnificente, debordante eleganza e
solennità, alla vigilia del suo definitivo congedo dalle scene
del mondo, umiliata nell'attesa di piegarsi alla vittoria dell'occidente
nella storia. Un unicum di raggelante perfezione registica dove l'orchestrazione
di superbi elementi scenografici rallenta di tanto in tanto in stati di
contemplazione che celebrano, con l'inevitabile tono dell'elegia, la bellezza
e la nostalgia, il senso metafisico e definitivo dell'universo che muore
quando si parcellizza nelle forme incomplete e banali dell'esistente,
ma che si rigenera per un insondabile alchimia nella poesia che procede
dalla sublime mistificazione della memoria, dal soave imbroglio del tempo
che trasfigura il passato, in quello scarto tra il rimpianto di ciò
che è stato e la consapevolezza che non sia mai esistito, nello
stordimento di una folla sudata e triste che si accalca sulle scale verso
l'uscita dopo aver consumato il delirio di un'ultima danza come abbandono
eroico e struggente alla morte che incalza, nello splendore di architetture
barocche che si liquefano tra i vapori, la nebbia e il fiume, nel risucchio
magnetico di un immenso nero. E' in quello specchio fatto di acqua, di
terra e di amore che navigano il cinema di Sokurov come del suo maestro
Tarkovskij e che permette alla ingenuità della loro visione del
mondo di generare capolavori, a ricordarci che non servono le pretenziose
rivisitazioni di classici narrativi [leggi Pinocchio] per celebrare la
dirompente spiritualità di un poeta-bambino, né le prese
di posizione buoniste su sentenze già emesse dalla storia [come
lo sterminio nazista] per insegnarci che 'la vita è bella', quanto
piuttosto l'autentico delirio di un'anima che sragiona e ci parla di indefinite
memorie, di languido rimpianto, di sublimata nostalgia ingenua, infantile,
illusoria, con la magia di una mano illuminata che conosce e governa le
potenzialità del suo mezzo e può permettersi di snobbare
cent'anni di grammatica cinematografica.
Voto: 30/30 e lode
Link:
www.russianark.spb.ru
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