ARCA RUSSA
di Alexander Sokurov
con Serguei Dreiden, Maria Kouznetsova, Leonid Mozgovoy



Toccante elegia dell'Arte concepita e interpretata con devozione totalizzante, dove la bellezza trova una forma assoluta resistente a qualunque ermeneutica del linguaggio e si asserve sconfitta ad una sinfonia di movimenti, di avanti e indietro di una macchina da presa che nel ristretto ritaglio dell'inquadratura riesce ad ingigantire, anzichè limitare, lo sfarzo e la grandiosità imperiale del Palazzo d'Inverno di San Pietroburgo. Pietro il Grande, Caterina II, il direttore d'orchestra Valery Gergiev, le sculture di Canova, i dipinti di El Greco, Rubens, e Van Dick in pose mai viste, sciami di ufficiali in sublimi uniformi e sfarzose dame sfilano leggiadri davanti alla tecnologia digitale di quel grande maestro che è Sokurov per divenire complici inconsapevoli della creazione di un prezioso oggetto d'arte, trasfigurati nello spazio inconsistente ma irresistibile dell'assoluto, trasportati oltre lo strascico evanescente del compiuto dalla levità dell'eleganza, dalla poesia della tristezza, dalla potenza dell'arte che insegue ciò che è inarrivabile. Un unico superlativo piano sequenza di novantasei minuti percorre tre secoli di Russia e di umanità, tra ironia e poesia, riportando in vita, attraverso una malinconica e appassionata emozione, i relitti di quella civiltà sontuosa, magnificente, debordante eleganza e solennità, alla vigilia del suo definitivo congedo dalle scene del mondo, umiliata nell'attesa di piegarsi alla vittoria dell'occidente nella storia. Un unicum di raggelante perfezione registica dove l'orchestrazione di superbi elementi scenografici rallenta di tanto in tanto in stati di contemplazione che celebrano, con l'inevitabile tono dell'elegia, la bellezza e la nostalgia, il senso metafisico e definitivo dell'universo che muore quando si parcellizza nelle forme incomplete e banali dell'esistente, ma che si rigenera per un insondabile alchimia nella poesia che procede dalla sublime mistificazione della memoria, dal soave imbroglio del tempo che trasfigura il passato, in quello scarto tra il rimpianto di ciò che è stato e la consapevolezza che non sia mai esistito, nello stordimento di una folla sudata e triste che si accalca sulle scale verso l'uscita dopo aver consumato il delirio di un'ultima danza come abbandono eroico e struggente alla morte che incalza, nello splendore di architetture barocche che si liquefano tra i vapori, la nebbia e il fiume, nel risucchio magnetico di un immenso nero. E' in quello specchio fatto di acqua, di terra e di amore che navigano il cinema di Sokurov come del suo maestro Tarkovskij e che permette alla ingenuità della loro visione del mondo di generare capolavori, a ricordarci che non servono le pretenziose rivisitazioni di classici narrativi [leggi Pinocchio] per celebrare la dirompente spiritualità di un poeta-bambino, né le prese di posizione buoniste su sentenze già emesse dalla storia [come lo sterminio nazista] per insegnarci che 'la vita è bella', quanto piuttosto l'autentico delirio di un'anima che sragiona e ci parla di indefinite memorie, di languido rimpianto, di sublimata nostalgia ingenua, infantile, illusoria, con la magia di una mano illuminata che conosce e governa le potenzialità del suo mezzo e può permettersi di snobbare cent'anni di grammatica cinematografica.

Voto: 30/30 e lode

Link:
www.russianark.spb.ru

Riccardo FASSONE
12 - 12 - 02


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