LA BELLA SCONTROSA

Jacques Rivette, 1991

 

di Marco GROSOLI


In genere quando si parla di Rivette si tirano fuori riferimenti cinematografici sempre molto superficiali. Renoir, Rossellini, ben che vada Preminger... Eppure, dapprima come critico, e poi nelle interviste una volta passato dietro la macchina da presa, l'interessato ha costantemente annoverato Mizoguchi Kenji tra i suoi numi tutelari.
La bella scontrosa, in particolare, è un film che presuppone molto chiaramente I racconti della luna pallida d'agosto. Ma mentre il Maestro giapponese costruisce una commossa elegia della creazione innanzitutto umana (arte come artigianato e viceversa), capace dello slancio universale che assume e sublima i propri stessi limiti (l'assenza, la morte, l'inconoscibile, l'irreale), il francese misura la dolorosa distanza che lo separa da una visione così classica, così totalizzante da potersi definire cosmica. La bella scontrosa è la funerea genesi della Modernità: la fine dell'unione piena tra l'artista e l'opera, tra l'opera e ciò che rappresenta, tra soggetto e oggetto, tra uomo e donna. Prima del mestissimo party conclusivo che "festeggia" la nascita del quadro, ce lo dice la moglie di Frenhofer: "questo non è un inizio, è una fine", ce lo dice la tipicamente rivettiana (si pensi al recente Histoire de Marie et Julien) costruzione che moltiplica le impossibilità (sia quelle dei personaggi che quelle relative al visibile che la macchina da presa non può non cercare) e le incrocia a scatole cinesi: un quadro che NON mostra una donna (non ne vediamo il viso) e che sostituisce un altro quadro (che invece lo mostra) murato nell'atelier e che gli spettatori stessi non possono vedere - il tutto dipinto da un pittore che sa di poter amare una donna solo perché non riesce a dipingerla, e viceversa dipinge solo ciò che gli appare a una distanza di sicurezza. Alla superficie del visibile, insomma, non possono accedere che rimasugli insignificanti dell'invisibile.
Fin qui, nulla di nuovo. Il discorso però acquista una profondità decisiva grazie all'elemento, anch'esso squisitamente mizoguchiano, del Femminile. Come per il Maestro (famoso appunto per i suoi ritratti femminili), la donna è il limite irrappresentabile che l'occhio (maschile) che produce il visibile deve per forza fronteggiare: l'illocalizzabile, imprendibile duello tra la modella e il pittore. Ma il "duello" non è la figura giusta: l'atelier è piuttosto il teatro di una continua erosione dell'occhio "reificante" che chiude il visibile in uno sguardo, in una figurazione precisa. L'usuale grandezza etica di Rivette sta nella sua consapevolezza di non poter staccarsi da quel tipo di sguardo, e dunque invece di rincorrere vanamente la rappresentazione dell'irrappresentabile costruisce una serie di forme visive vettoriali, chiuse, che lascia però scuotere da vibrazioni indefinite. Questo è lo spazio in Rivette: il sospetto di un'estensione al di là delle relazioni tra gli oggetti immediatamente catturabili dall'occhio. Questo il senso, ad esempio, delle improvvise zoommate verso Marianne dopo svariati minuti di una mano che dipinge, o di inquadrature composte (pittoricamente) dal pittore che dipinge in profondità e dalla modella che voltandogli le spalle ci guarda in primo piano "sfondando" la quarta parete, o di un controcampo di Marianne ("chiuso" nella normale relazione guardante-guardato) che si allarga fino a mostrare i sussulti inconsapevoli del suo corpo nudo. Nell'atelier la relazione tra soggetto e oggetto viene sbalestrata (al punto che Marianne più il quadro procede più è trascurata dalla macchina da presa), grazie al tempo: al suo irrompere traumatico (il passato del quadro incompiuto con Liz) e al suo protendersi (delle molte ore del film, delle sue scene incuranti della sintesi fattuale dell'azione). E lo spazio in Rivette è questo: ciò che resta dell'incontro "impossibile" tra lo spazio stesso e ciò che lo percepisce, che lo chiude in una forma visibile; ciò che resta dopo l'irruzione del femminile che demolisce le coordinate ordinarie: Marianne che "invade" l'atelier, sposta gli oggetti, dice di rivendicare un suo tempo e un suo spazio, diventa un puro, vuoto propulsore negativo ("No", la sua battuta che chiude il film), esplosivo, fino alla demolizione suprema, quella della staticità del punto di vista quando Frenhofer la accusa di essersi mossa e lei ribatte "guarda che ti sei mosso tu".
Questo terremoto avrà ovviamente come conseguenza il fatto che tutto rimanga tale e quale a prima: Liz con Frenhofer, Marianne con Nicolas, il produttore coi soldi. E Frenhofer ha soprattutto paura di perdere il controllo, almeno quanto finge di volerlo perdere. Ma il moderno è questo, e la nouvelle vague lo ripete da decenni: la continuità con il classico con altri mezzi, non più l'unità ma la rottura. E il terremoto filmico bisogna costruirlo davvero, non vuol dire agitare la macchina a caso come in Blair Witch Project. In La bella scontrosa è terremotata sia la struttura generale (e pochi si sono occupati di deragliamento della struttura quanto Stravinskij, citato in colonna sonora), con una voce over assolutamente indipendente dalla narrazione (salta fuori nei primi 5 minuti e negli ultimi 5) che scaraventa all'improvviso il cuore del film al di là del visibile (dice "Io sono Marianne e non quella che vedete" - ma dove e cosa sarebbe questo "io" che non si vede?), che la grammatica molecolare delle inquadrature: mai, nell'atelier, vengono collegate a semplice catena il pittore, la sua opera, e la modella, ma sempre vengono create relazioni parziali e a cui il tempo attribuisce sostanza per allargare allo spettatore lo spaesamento visivo al centro del film (e dei continui deliri verbosi di Frenhofer), tanto più grande quanto la regia appare comunque quadrata, attenta, portatrice di un punto di vista stabilmente appoggiato sulla porzione di mondo che inquadra. Perché il costruire (dipingendo) lo spazio, è esso stesso questione di spazio: lo spazio che si srotola al di là delle relazioni immediatamente percepite/costruite dall'occhio (e infatti il rapporto pittore-modella si gemma ed espande nelle relazioni interpersonali fuori dall'atelier), srotolandosi da solo nelle mani del pittore, negli occhi stessi di chi guarda. Rivette riesce a costeggiare la visione stessa, intesse una fitta trama di relazioni e movimenti e se ne autoesclude, si muove ai margini dello spazio perché il guardare stesso è un atto spaziale, e dunque contemporaneamente dentro e fuori lo spazio. Lo spazio come autoesclusione di sé stesso.
 

LA BELLE NOISEUSE

Regia: Jacques Rivette
Anno: 1991
Nazione: Francia, Svizzera
Genere: Drammatico