La guerra di Mario
(2005) ci aveva lasciato l’impressione di un autore certo non più
giovane ma nel pieno di un inaspettato momento di crescita. Era un film,
quello, tutto incentrato sullo scontro tra le due anime di Napoli: quella
imprendibilmente sottoproletaria e quella borghese. Lì, però, questi due
piani non finivano mai di cozzare l’uno contro l’altro e di spiazzare le
attese e gli inconsapevoli buonismi dello spettatore.
Qui no. Qui abbiamo un diciassettenne detenuto per stupro, e una benestante
coetanea anoressica alle soglie della maturità scolastica. Che la seconda
sia in preda alle solite ubbie antonioniane (e voglia fare l’attrice di
teatro) sorprende poco; sorprende di più che anche il primo, in carcere,
maturi (nonostante le non rare esplosioni di violenza) un consistente
interesse per la poesia. Sono due pesci fuor d’acqua, immersi in un ambiente
che ha poco a che fare con loro, e tendenti entrambi a chiudersi in loro
stessi. I due non si incontrano mai. Però si scrivono lunghe lettere; lui
gli manda addirittura un portacenere in ceramica.
Il problema è appunto questo. I due piani rimangono costantemente separati,
“incarcerati” nel montaggio alternato. Lo stesso che, nel finale, costruisce
un raccordo immaginario che fa incontrare virtualmente i loro sguardi, anche
se uno sta a Napoli e l’altra a San Francisco. L’unico spazio che unisce i
due protagonisti è quello, interamente utopico, dell’arte. Per questo
Capuano tenta di sopperire un racconto interamente assorbito nella
stagnazione che si trova a presupporre (ambedue i personaggi sono in un
vicolo cieco e non possono fare nulla per uscirne) cullandoci in un
pregevole susseguirsi di “sublimazioni” stilistiche. I suoi “fuori fuoco”
inattesi, i suoi giochi cromatici di scenografia, i suoi dolci e dolenti
carrelli (magari quelli che accompagnano la bella scena di lei che gironzola
nei vicoli, uno dei non pochi momenti figurativamente felici del film),
tentano invano di offrirci una specie di compensazione estetica per un film
che non c’è.
E il film non c’è perché non c’è conflitto. Il film si arrende alla
separazione invalicabile dei due protagonisti, e dei loro due mondi sociali
di riferimento. Tutto il contrario de
La guerra di Mario, storia in cui una professoressa di Storia
dell’Arte era costretta a deporre le sue presunzioni borghesi (e il suo
credere che l’utopia estetica risolva tutto), e imbracciare le armi di un
conflitto senza fine con il piccolo “mostro” che non poteva non amare. Qui
non c’è amore né conflitto, ma solo la constatazione para-melodrammatica
dello scacco e della disunione, e il tentativo poco audace di “consolarsi”
da ciò abbandonandosi all’inerte utopia dell’Arte.
04:09:2010 |