L'Amore buio

di Antonio Capuano

con Irene De Angelis, Corso Salani
Altri interpreti: Valeria Golino, Fabrizio Gifuni

di Marco GROSOLI

 

25/30

 

La guerra di Mario (2005) ci aveva lasciato l’impressione di un autore certo non più giovane ma nel pieno di un inaspettato momento di crescita. Era un film, quello, tutto incentrato sullo scontro tra le due anime di Napoli: quella imprendibilmente sottoproletaria e quella borghese. Lì, però, questi due piani non finivano mai di cozzare l’uno contro l’altro e di spiazzare le attese e gli inconsapevoli buonismi dello spettatore.
Qui no. Qui abbiamo un diciassettenne detenuto per stupro, e una benestante coetanea anoressica alle soglie della maturità scolastica. Che la seconda sia in preda alle solite ubbie antonioniane (e voglia fare l’attrice di teatro) sorprende poco; sorprende di più che anche il primo, in carcere, maturi (nonostante le non rare esplosioni di violenza) un consistente interesse per la poesia. Sono due pesci fuor d’acqua, immersi in un ambiente che ha poco a che fare con loro, e tendenti entrambi a chiudersi in loro stessi. I due non si incontrano mai. Però si scrivono lunghe lettere; lui gli manda addirittura un portacenere in ceramica.
Il problema è appunto questo. I due piani rimangono costantemente separati, “incarcerati” nel montaggio alternato. Lo stesso che, nel finale, costruisce un raccordo immaginario che fa incontrare virtualmente i loro sguardi, anche se uno sta a Napoli e l’altra a San Francisco. L’unico spazio che unisce i due protagonisti è quello, interamente utopico, dell’arte. Per questo Capuano tenta di sopperire un racconto interamente assorbito nella stagnazione che si trova a presupporre (ambedue i personaggi sono in un vicolo cieco e non possono fare nulla per uscirne) cullandoci in un pregevole susseguirsi di “sublimazioni” stilistiche. I suoi “fuori fuoco” inattesi, i suoi giochi cromatici di scenografia, i suoi dolci e dolenti carrelli (magari quelli che accompagnano la bella scena di lei che gironzola nei vicoli, uno dei non pochi momenti figurativamente felici del film), tentano invano di offrirci una specie di compensazione estetica per un film che non c’è.
E il film non c’è perché non c’è conflitto. Il film si arrende alla separazione invalicabile dei due protagonisti, e dei loro due mondi sociali di riferimento. Tutto il contrario de La guerra di Mario, storia in cui una professoressa di Storia dell’Arte era costretta a deporre le sue presunzioni borghesi (e il suo credere che l’utopia estetica risolva tutto), e imbracciare le armi di un conflitto senza fine con il piccolo “mostro” che non poteva non amare. Qui non c’è amore né conflitto, ma solo la constatazione para-melodrammatica dello scacco e della disunione, e il tentativo poco audace di “consolarsi” da ciò abbandonandosi all’inerte utopia dell’Arte.
 

04:09:2010