
Quando ciò che conta è solo l’apparenza, tanto da diventare l’unico parametro
per giudicare qualcuno, allora si ha lo stesso problema di Hal (Jack Black),
il protagonista di AMORE A PRIMA SVISTA, che, malgrado sia un tipo comune
e poco affascinante, è costantemente alla ricerca della top model da capogiro.
Hal è terribilmente attratto dalle belle donne, ma non sa nulla di loro,
di come siano veramente, di quello che provino, né mai gli è capitato
di scambiare due chiacchiere con qualcuna che non fosse alta almeno un
metro e ottanta e non avesse delle misure più che perfette. Ma Hal ha
la (s)fortuna di passare qualche ora incastrato in un ascensore con Anthony
J. Robbins (che nel film interpreta se stesso), il mago della psicologia
di Peak Performance e di Turnaround personale (nella realtà, tra i suoi
clienti figura anche il Presidente degli Stati Uniti), il quale prende
a cuore la sua superficialità nevrotica ed autolesionista - che lo porta
costantemente ad essere rifiutato da donne ben al di sopra delle sue possibilità
e ad essere considerato dai suoi amici e colleghi un immaturo cronico,
senza speranze di recupero - e decide di fargli una sorta di incantesimo:
d’ora in poi Hal vedrà solo la bellezza interiore delle ragazze e ne sarà
talmente attratto da trasfigurarle, in modo che anche le meno affascinanti
diventino, magicamente, degli esseri perfetti e bellissimi. Così incontrerà
Rosemary (Gwyneth Paltrow) 120 chili di splendido carattere, che lui vedrà
incarnati in una bionda mozzafiato assolutamente irresistibile.
Questa volta Bobby e Peter Farrelly - co-sceneggiatori, registi e produttori
di AMORE A PRIMA SVISTA - si sono cimentati in un’impresa difficile ed
anche rischiosa, per chi come loro, con SCEMO & + SCEMO, TUTTI PAZZI
PER MARY e IO, ME & IRENE è riuscito in pochi anni a crearsi uno stile
assolutamente inconfondibile (nonché di grande successo): e cioè hanno
messo al centro della narrazione la storia e non la comicità. Infatti
in AMORE A PRIMA SVISTA si ride, ma anche con la testa. Inoltre, il loro
modo di "giocare" con il problema della bellezza, dell’apparenza, dell’inganno
e della superficialità è sano e molto poco retorico: grazie ad una sceneggiatura
sincera e al limite del politically correct, la morale del cercare oltre
le forme riesce a non scadere in una noiosa e bigotta predica. Ed il messaggio
resta attuale, pur nella sua semplicità di fondo. Probabilmente il tocco
realista del soggettista e co-sceneggiatore Sean Moynihan - che prima
di cimentarsi nella scrittura era un dirigente di marketing di software
per computer - è servito a creare quella base narrativa che fa di una
pellicola un vero e proprio film. Senza togliere quel pizzico di ironica
surrealtà tipica del loro modo di raccontare.
A proposito di surrealtà, pare che Gwyneth Paltrow abbia indossato il
suo abbondante costume in un albergo di New York per vedere se il suo
aspetto di donna sovrappeso fosse credibile. E sembra proprio che, per
la prima volta in vita sua, nessuno, ma proprio nessuno, le abbia rivolto
la parola.
Voto: 28/30
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