
"Papà, non ci capisco più niente: New York è come una grande orgia
continua…" (dialogo padre-figlio, da AMERICAN SCHOOL). "Figliola,
vedendoti ballare sui tavoli di quel bar, per la prima volta in vita mia…mi
sono vergognato di te" (reprimenda paterna, da LE RAGAZZE DEL COYOTE
UGLY, ambientato nella stessa città). Più che di procedimento narrativo,
si dovrebbe parlare di procedimento rappresentativo per la quasi globalità
del cinema americano a funzione educativa, quello, per in tenderci,
del filone "da ateneo demenzial-buonista". Le pellicole risultano essere
una sorta di show-case di slogan, precetti, suggerimenti ad uso
dell'arrendevole pubblico giovanile medio, trovando immediata corrispondenza
in momenti-immagine (più che in scene strutturate, ricche di sviluppo),
che ne sono lo spazio, appunto, di rappresentazione fine a se stessa.
A questo punto, non solo scompare la storia, ma, supponendo la paternità
esterna dei "significati" che il prodotto dovrebbe veicolare, si dissolve
anche il fantasma dell'autore presunto. Non-film assemblato
da un non-regista. Se, inoltre, come dice Jung, il bambino rappresenta
l'inizio dell'uomo e la sua creatura finale, e tutti riteniamo gli Stati
Uniti nella loro fase adolescenziale dal punto di vista storico, va peraltro
detto come il perdurare di una agghiacciante tendenza semplificativa nel
tentativo di gestire certe tematiche e certi aspetti della cultura, cominci
a essere preoccupante. Che si tratti di un inizio infinito? Di
un costitutivo stato embrionale di intelligenza delle cose? Certo,
da un popolo così poco auto-dotatosi di senso della fine (noi europei
siamo degli specialisti in escatologia…) difficilmente potremmo aspettarci
illuminazioni improvvise di senso contrario. In questo (misero) caso,
si tratta di fornire un decalogo comportamentale allo studente che
passa dal liceo al college, e più precisamente va a studiare a New
York: la Grande Mela ha solida reputazione maudit, e siccome un
anno di università costa 35mila dollari (!?!), sembra che l'Associazione
Genitori Ricchi degli Stati Uniti si sia coalizzata per finanziare questo
capolavoro di moralismo d'accatto. Evitiamo di dirvi, per un po' di pudore,
il nome del regista e se esiste una trama: assistiamo inermi alla contrapposizione
di due modelli comportamentali antitetici. L'ingenuo e stolto, ma molto
forrest gump, cioè passivamente ben disposto nei confronti del prossimo
(esempio da preferire); e il furbo impenitente, alla moda, impegnato a
fare scempio di tempo e denaro (da rifuggire). Il problema è che il protagonista
(il buono, ma poco selvaggio) sopporta con "stoico autolesionismo" il
ruolo che la vita gli ha assegnato, accumulando i fardelli di una borsa
di studio da conquistare, di tre compagni intenti solo a farsene beffe,
di una ragazzetta (Mena Suvari) che non ama lui, ma il cinico professore
di letteratura. Mentre quello viene mandato a vivere in una stanzetta
ricavata all'interno del dipartimento di veterinaria, gli altri si dilettano
in party a base di Roipnol e superalcolici: la mistura adatta a far strage
di studentesse. Tra scene di gattini salvati al momento del parto e sballi
di gruppo, la contrapposizione non poteva essere più sommaria e, a conti
fatti, inoffensiva. Come si può pensare che un film del genere possa servire
a sostenere il non-uso della marijuana o di altri additivi nei
college? E' dicendo "non farti una canna" che si ottiene l'effetto voluto
(e ci fermiamo qui…)?
L'infantilismo degli americani, quella che chiamavo non-intelligenza
delle cose (quindi il lato deteriore dell'essere ancora bambini, e
non la purezza o la capacità di lasciarsi andare…), risiede tutta nel
moralismo gretto e ipocrita che ispira molti dei loro tic ideologico-comportamentali.
Dopo un film che termina sui fermi-immagine dei vari personaggi, con didascalia
dei loro esiti nella vita (tizio per colpa degli spinelli adesso è in
carcere; caio non riesce neanche ad allacciarsi le scarpe da quanto è
fumato; il professore è sotto processo perché continuava a "molestare"
le studentesse e via di questo passo), chiunque avrebbe voglia di fare
l'esatto contrario. Questo cinema straccione e insulso, in definitiva,
fa uso di rappresentazioni analogiche della realtà (immagini isolate,
poiché assente il racconto), quasi si trattasse di cartelloni pubblicitari,
dove lo slogan è, di volta in volta, scritto - come nel finale - o parlato.
I personaggi non possono dirsi tali, l'interpretazione inesistente non
certo per difetti d'impostazione, ma perché esattamente quello viene richiesto
al prodotto: di essere strumento di una propaganda, di una successione
di enunciati che, superando la limitatezza disciplinare degli strumenti
specifici, trova qui un nuovo campo d'azione e potenzialità infinite.
Il tutto risulta assolutamente chiaro se passiamo alla, breve, analisi
del messaggio commerciale, presente ormai senza pudore nel testo (non
più nel sottotesto) filmico. A) Jason Biggs, lo stolto, va al concerto
degli EVERCLEAR, dove ha invitato la sua amica. Che si tratti di QUEL
gruppo, piuttosto di un altro, è assolutamente ininfluente. I musicisti
sono ripresi male e per una manciata di secondi, il che conta poco, mentre
il brano va avanti per più di un minuto: dal momento che si voleva semplicemente
far conoscere il prodotto musicale, lo scopo è stato ottenuto. B) stessa
cosa per il mezzo minuto di un'altra parentesi assolutamente gratuita:
lo spettacolo de LES MISERABLES, in cartellone a Broadway (spettacolo
vero: notiamo, tra gli altri, Alan Cumming, già in EYES WIDE SHUT e TITUS),
che è un vero e proprio spot pubblicitario. C) il logo della VIRGIN, ripreso
a lungo tra le teste dei due protagonisti (ma qui siamo nella norma).
D) un brano dei CURE, che sinergia vuole appartengano al catalogo della
stessa Virgin.
Forse dovremmo inventare una nuova categoria nel campo della settima arte:
gli advertising-movie, i film che allungano all'ora e mezza la
durata di uno spot tradizionale, con l'aggravante di contenere ben più
gravi incursioni nel campo dell'etica personale.
Voto: 13/30
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