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alpis di Yorgos Lanthimos con Ariane Labed, Aggeliki Papoulia e con Aris Servetalis, Johnny Vekris |
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30/30
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Dopo essersi imposto già nel 2005 all'attenzione dei più avvertiti con il suo Kinetta, dopo essersi segnalato a un pubblico più ampio con Dogtooth nel 2009 e aver prodotto il (e recitato nel) celebrato Attenberg di Athina Rachel Tsangari l'anno seguente, il greco Yorgos Lanthimos diventa definitivamente con Alpis uno dei nomi più interessanti e promettenti degli ultimi anni di cinema europeo. Dogtooth, in particolare (anche se non mancano fortissimi punti di contatto con Attenberg), sembra essere il precedente decisivo di questa nuova, straordinaria intrapresa. In esso, una famiglia segregava i figli già più che grandicelli, e faceva di casa propria un grottesco, gelido, rigidissimo paradiso integralmente al riparo di un mondo esterno che, comunque, i figli mai avevano visto. Alpis, storia di una sinistra “crew” i cui membri vengono ingaggiati da persone in lutto per sostituire i loro cari estinti e fare come non fossero mai morti, prosegue sulla medesima strada: l'allontanamento della vita dietro un familiare ma tremendamente inautentico sistema di codici. Rispetto a Dogtooth, però, viene meno la rigidità programmatica: non c'è più bisogno di chiudere il film negli angusti perimetri della villetta familiare, perché ora è il mondo stesso, quello ordinario che “riluce” (si fa per dire) a cielo aperto, a proteggersi dalla morte creando un simulacro di vita più agghiacciante della morte stessa. Scene di insostenibile imbarazzo come quelle per cui una quasi quarantenne vestita con un completino da tennis finge di essere la campionessa adolescente che i genitori hanno traumaticamente perso, sono quella “morte-in-vita” che fa definitivamente sfumare il confine tra vita e morte (il che, se vogliamo, sarebbe anche la natura più propria del cinema). La vita non c'è: ci sono solo gli sforzi penosi affinché possa esserci. Non c'è più un “dentro” e un “fuori” come in Dogtooth, perché è il “fuori” stesso (la “vita” nella sua ordinarietà) che viene lacerato dal di dentro dal suo contrario. Non a caso, un gran numero di inquadrature sono lacerate dall'interno grazie al contrasto, spesso assai netto (quando non addirittura violento), tra le parti del quadro a fuoco e quelle fuori fuoco. Da ciò, le tonalità cupe e livide di questo film, in cui personaggi dal fare (e dal parlare) stanco, robotico e privo di convinzione simulano una vita che, ben che vada, è un lontano ricordo, e che viene gravata da una pesante ombra di improbabilità. Ad essere improbabile è la possibilità stessa che esista un qualche rapporto stabile tra la realtà (come quella inevitabile della morte) e l'artificio (come la “vita”), visto che passano continuamente l'una nell'altro. Lanthimos, appunto, ricrea con straordinaria abilità l'impossibilità di questo rapporto stabile: da un lato, il suo approccio visivo è magistralmente grafico, geometrico; dall'altro, tuttavia, lo è solo parzialmente. Il grafismo spigoloso di Lanthimos è astutamente monco, accennato, incompleto, semi-annegato in una materia grumosa, oscura, opaca. Questo impasto perturbante di realtà e artificio giustifica la “cornice” del film: la prima e l'ultima scena (che mostra una ballerina alle prese con un inflessibile coach) chiariscono senza tema di smentita che è una questione, innanzitutto, di coreografia. Ovvero, di coordinazione tra lo spontaneo-corporale e l'artificio della forma. Due componenti che non bisogna combinare, ma profanare. Bisogna violarne, con astuzia teologica, la distinzione. È quello che fa la protagonista, che riesce a superare la mostruosa inautenticità di quella pratica di sostituzione non reclamando i diritti della “vita vera”, ma portando al parossismo proprio quell'inautenticità. Aderendo con vigore e tutto il trasporto possibile all'identità imposta dai “clienti”, ben oltre i limiti che questi ultimi non possono evitare di tracciare. Portandosi il lavoro a casa, ovvero interpretando lei stessa la parte di una morta per consolare il poco consolabile padre da poco vedovo, oppure la parte dell'amico barbiere di un collega – in ambo i casi, senza che nessuno la paghi, ma semplicemente per affetto verso di loro. È da questa profanazione che arriva la salvezza. E salvezza c'è, ci vuole solo un po' di coraggio: nessuna condanna metafisica. Lo testimonia un lieto fine che sbatte la porta in faccia al terrificante pessimismo verso cui il film fa di tutto per dare ad intendere di volersi dirigere. . 09:09:2011 |
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