
Noi di Kinematrix stiamo cercando da tempo qualche regista italiano capace
- per soluzioni stilistiche, visionarietà, volontà di non accontentarsi
dell'occasione avuta - di smuovere le acque del cinema italiano, di dimostrare
che, come molti credono, non tutto è perduto. La ricerca non è finita,
ma con ALMOST BLUE qualcosa abbiamo trovato.
Occorre dirlo subito: ALMOST BLUE non è assolutamente un grande film e
Alex Infascelli deve vederne e farne ancora tanto di cinema, prima di
essere ricordato per delle buone ragioni. Tutto quello che diremo va inteso
allora come ricerca degli aspetti positivi in un'opera che manca in gran
parte di ritmo, scade nella recitazione, e ha nei dialoghi il punto più
debole.
Un disastro, si direbbe. Però Infascelli sceglie uno degli scrittori italiani
cult di oggi, Lucarelli, e non racconta una delle tante e già viste storie
"carine" ma nemmeno - e ci venga scusato l'approccio schematico alla produzione
nostrana - storie di mafia o di poliziotti speciali. La scelta è andata
verso una storia bolognese di un serial killer, molti dei cui drammi all'origine
dei suoi gesti sono dovuti ai noti traumi infantili che spesso hanno colpito
questa tipologia di eroe cinematografico. Al di là dunque di quello che
può pensare Infascelli (in "FilmTv" del 28/11/2000, a pg. 13, ha dichiarato
che il suo "…certo non [è] un film di genere") ALMOST BLUE ha molto a
che fare con l'arcinoto filone statunitense (e casomai hongkongese) del
serial killer solitario (magari informatizzato), del quale riprende un
gran numero di stereotipi, spesso limitandosi a rilanciarli in chiave
ed ambientazione romagnola.
Con le sole buone intenzioni, quindi, non si fa un buon film; ma certo
si può aprire una strada. Siamo convinti che non serva a nulla stroncare
di brutto un film come questo, impedendo magari all'autore o inibendo
altri a proseguire lungo una via non certo comune - e dunque facile -
dalle parti di casa nostra. Una via che, come dicevamo, è parente stretta
del cinema di genere: questo, però, non significa nulla, perché niente
impedisce che da qui possa nascere qualcosa di nuovo (basti pensare -
per carità, fatte le dovute differenze - a quanto successo in Francia
qualche decennio fa). Meglio forse un robusto cinema di genere (non solo
commedia però…) o ad esso parente, che qualcosa di informe, senza identità,
se non in difetto o a sprazzi.
Però le buone intenzioni ci sono, si vedono e servono comunque: Infascelli
tenta una cosa sulla carta davvero interessante: costruire un film alternando
alle comuni inquadrature narrative lo sguardo, in soggettiva, non di uno
ma di tutti e tre i personaggi principali: il killer Alessio Crotti, l'ispettrice
di polizia Grazia Negro (Lorenza Indovina, che ricordavamo solo in LA
FAME E LA SETE, è certo un'attrice da rilanciare) e del ragazzo cieco,
Simone Martini. La soggettiva di Grazia è piuttosto comune, per quanto
a volte mossa; mentre già per l'assassino già le cose cambiano. Costui,
per ragioni che non staremo qui a spiegare, vive ossessionato da un hard
rock che ascolta in cuffia sempre ad altissimo volume, il che gli permette
di estraniarsi dal mondo circostante, e lo aiuta nel compiere la propria
missione: ecco le origini di una soggettiva non esclusivamente visiva
ma anche acustica, in cui il controcampo audio è coperto da questo delirio
musicale, che segna ancora di più la volontà di Crotti di coprire di sé
le proprie vittime. E poi c'è Simone Martini: lui vede le voci,
le traduce in colori, riconosce così l'assassino e intuisce un feeling
con Grazia, la cui voce, per Simone - e sullo schermo - è sensibile in
forma di macchie di colore quasi blu. Quel blu che è poi, naturalmente,
anche il colore dominante di tutto il film, e questo anche in sede di
direzione della fotografia: la maggior parte delle tonalità è infatti
quasi di continuo virata al blu, piuttosto che al nero o al grigio.
Per il resto, come dicevamo, non c'è molto, al di là forse del personaggio
di Grazia, donna poliziotto in parte vicina alla Frances McDormand di
FARGO, impacciata nella sua femminilità e timorosa nel ribadire l'autorità
che la sua posizione le garantirebbe. Crotti, invece, non ha un'identità
sua per cui, come una sorta di Zelig dell'omicidio seriale, vorrebbe assumere
quella degli altri, ma tale aberrante desiderio non trasmette, sullo schermo,
alcuna emozione, se non dovuta all'indubbio - ma sperso - talento per
l'immagine ad effetto dimostrato da Infascelli. E poi, ma qui finiamo,
che bisogno c'era - viste le premesse e quando invece a mancare è piuttosto
la capacità di preparare la sequenza che segue - di ricorrere ad
un montaggio esplicativo per cui l'immagine b chiarisce la a,
già comprensibile di suo (la classica iconografia di San Sebastiano per
spiegare una messa in scena di un omicidio che non poteva che ricordarla,
o altre cose simili…). Altro che Ejzenstejn e senso di secondo grado!
Peccato, ma attendiamo fiduciosi.
Voto: 24/30
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