I fratelli Taviani, ormai testimoni diretti di un ragguardevole segmento di
Storia, affermano di aver realizzato il film spinti da un generico senso di
colpa: ritenevano intollerabile il peso di non aver mai affrontato con la
loro arte la "shoah" armena del 1915, durante la quale i Nuovi Turchi,
fascisti, sterminarono un milione di persone colpevoli di appartenere ad
un'etnia accusata di appoggiare la Russia ancora non comunista scesa in
guerra.
Seguendo un ragionamento solo parzialmente paradossale, la totale assenza di
qualità de LA MASSERIA DELLE ALLODOLE sgombra il campo da valutazioni
critiche di sorta e aiuta, come nel caso di altre opere di autori non più
giovani (Monicelli), a sospendere il giudizio, ormai superfluo, e a
concentrarsi sul documento. Forse l'età avanzata è matrice di un
disincanto alternativamente declinato in forma di levigatissimi saggi di
formalismo più o meno rinforzato da contenuti (IL MESTIERE DELLE
ARMI, CANTANDO DIETRO I PARAVENTI, quindi Olmi prima di CENTOCHIODI), o di
un documentarismo da soap opera pieno di malizia registica, aperto a
ogni espediente espressivo adatto al piccolo schermo.
La categoria del regista anziano, insomma, sembra collocarsi a metà
tra eccesso di scrupolo e opposta assenza di freni inibitori, quasi che il
redde rationem al termine di una carriera comportasse comunque una
revisione, uno scarto, un ripensamento parziale o totale dei propri codici
espressivi.
LA MASSERIA DELLE ALLODOLE, come in parte LE ROSE DEL DESERTO, si pone quasi
fuori dalla filmografia di chi l'ha concepito, pieno com'è di ammiccamenti
ad un'estetica cheap, televisiva, asservita al dominio di primi piani
invasivi e alle necessità di una drammaturgia elementare, che sovrappone
visi inespressivi all'insondabile profondità della Tragedia, privilegiando
vicende private rispetto al campo lungo dello sterminio di un popolo, non a
caso rappresentato degnamente solo da immagini d'epoca.
La storia d'amore - ma solo secondo i trailer - tra l'ufficiale turco
interpretato da Preziosi e l'armena Paz Vega non ha luogo, non c'è
letteralmente, è puro pretesto pubblicitario e contribuisce semmai, come per
tutti gli altri attori, alla composizione di un cast folle, istericamente
multiverso perché obbligatoriamente specchio della co-co-coproduzione.
Eliminata quindi l'unica giustificazione per la sovraesposizione dei corpi
attoriali (le storie, che però non reggono, non ci sono), il film veicola
solo l'informazione storica e per questo ha grandi, indiscutibili meriti.
Un secondo ordine di considerazioni, legato a tali meriti, ci obbliga a
sgombrare il campo da possibili equivoci: in epoca di sentimenti no-global
(condivisi), di antiamericanismo inteso come anti-bushismo
(condiviso) e di opposizione radicale ai giochi di guerra destinati solo ad
aumentare la forbice tra primo mondo e quarti, quinti universi vessati e
maciullati dall'oscena greed a stelle e strisce (condivisa,
l'opposizione), è bene evitare di descrivere univocamente la sfaccettata
complessità del mondo islamico.
La Turchia, forse a un passo dall'entrata nella Comunità Europea, non può
godere in nessun modo della benevolenza e solidarietà con la quale occorre
guardare a Iraq o Palestina, per limitarci a due soli esempi: sia perché
Istanbul è ampiamente occidentalizzata e non univocamente islamica, quindi
non povera e assolutamente non vessata, sia perché, cosa assai più
grave, la nazione turca si ostina a coltivare un nazionalismo ottuso e cieco
di fronte all'evidenza della Storia, sia essa presente (l'infinita questione
cipriota), sia essa passata (genocidio degli Armeni e espansionismo
all-time verso i Balcani e non solo).
Il film dei Taviani, tratto dall'omonimo libro di Antonia Arslan (ma si veda
anche il testo di Marcello Flores), va inteso leggendo tra le righe
televisive il testo di pura informazione verso tutti coloro che nulla o poco
sapevano di un genocidio che fece un milione di vittime, secondo solo alla
mostruosità hitleriana. Un Paese che a distanza di quasi un secolo si ostina
a negare l'evidenza solo per poter entrare nel consesso dei (presunti)
grandi e che a intervalli regolari sembra cedere alla deriva nazionalista,
forse non merita benevolenza e neppure l'apertura di credito che l'Europa, a
fatica, sembra volergli concedere. Non sono e non devono essere i fantasmi
di un Passato ancor più lontano a condizionare il giudizio (come se
giudicassimo Roma e l'Italia, nel 2007, per il colonialismo imperialista di
Cesare), ma l'idiozia di un atteggiamento politico-diplomatico odierno
assolutamente da censurare, cui si devono anche le proteste contro questa
stessa pellicola da parte del governo turco.
In definitiva, un film "da usare", magari insieme a opere di ben altro
spessore, come VIAGGIO IN ARMENIA di Robert Guèdiguian e ARARAT di Atom
Egoyan: due registi nati lontani dalla madre patria (in Francia e a Cipro),
testimonianze viventi di un esodo crudele, figli o nipoti di una generazione
quasi totalmente sterminata dai Turchi del 1915.
Voto: 21/30
29:03:2007 |