
Parlare di un film spesso coincide con il dover
decidere a quali aspetti della "produzione" nel suo complesso, e ai suoi
eventuali molteplici significati non prettamente artistico-espressivi, dare
maggiore spazio e rilievo.
ALEXANDER ci porta innanzitutto a chiederci dove mai siano finiti i 160
milioni di dollari spesi per la realizzazione. Non tanto o non solo perché
se ne sottintenda un uso improprio o scriteriato, quanto perché veramente,
calcoli alla mano, risulta incomprensibile come si sia arrivati a tanto. Il
cast da solo e l'insieme delle comparse, oltre a location inusuali, sono
certo voci importanti: ma la computer graphic, ormai, costa un po' meno
degli anni passati.
O, se non è così, ci domandiamo che senso abbia strapagare i migliori
creativi del settore per inturgidire via-montaggio Avid solo un paio di
sequenze di battaglia, quando nel caso di Megalexandros era assolutamente
necessario mostrarne almeno un altro paio in più. Il periodo iniziale delle
campagne greche, ad esempio, e la distruzione di Tebe, o Persepoli città
sacra data alle fiamme, sono episodi tranquillamente cassati da una specie
di "ellissi" macro-temporale degna di un libro di storia dei giorni d'oggi.
E l'Egitto? La fondazione di Alessandria, anche se avvenuta senza
particolari spargimenti di sangue?
Alessandro Magno fu anche, certo non solo, un grandissimo stratega sul campo
di battaglia e la comprensione visiva del suo genio sarebbe stata assai
gradita.
Avremmo, cioè, gradito vedere rappresentati i movimenti detti "dell'incudine
e del martello", grazie ai quali le schiere avversarie venivano prima
compresse dalle falangi rettangolari di fanti armati di lance anche di 5/ 6
metri (inusuali e innovative), già sperimentate dal padre di Alessandro, il
grande generale Filippo II (Kilmer...), e poi schiacciate da tergo, grazie
all'accerchiamento della cavalleria. Se la potenza della C.G. deve
esprimersi in qualche modo, meglio così, piuttosto che finalizzata a
facilitare un ipermontaggio fastidioso (diecimila "tagli"? ventimila?), o a
moltiplicare le comparse in battaglia, cosa che ormai fanno tutti i
neo-pepla hollywoodiani, a cominciare da GLADIATOR. Ma va anche detto che
quelle formichine viste dall'alto hanno un livello di definizione ancora
inaccettabile, come succedeva per il pubblico del Colosseo di Ridley Scott,
se si metteva ben a fuoco l'occhio, o per Achei e Troiani seminati sulla
spiaggia di TROY. E i ritocchi da "Première 300.0", con piccolissimi ralenti
e accelerazioni o la momentanea saturazione del colore, non hanno un senso e
una giustificazione profondi, se non nella scena dello scontro con gli
elefanti, virata verso un bel rosso autunnal-lisergico.
Ci siamo immaginati, durante la visione del film, dei campi lunghi o
lunghissimi molto old style, molto "Lawrence d'Arabia", che avrebbero
aiutato il film molto di più di questa orgia cromatico-cinetica. O anche i
lentissimi zoom kubrickiani di BARRY LYNDON!
Ma Oliver Stone, oltre che un pasionario in acido che si fa spesso prendere
la mano, è anche un americano al soldo delle major, checché ne dica lui
stesso.
Se voleva realizzare un diario intimo, ma solo quello, dei dolori del
giovane Alex in preda a visioni di gloria e a passioni omosex, non doveva
servirsi del consueto partner (Warner Bros), ma di un piccolo produttore
indipendente.
Il difetto principale del film sta proprio nella giustapposizione di
segmenti di battaglia visivamente ipertrofici e vaste zone di racconto
privato verboso, il tutto supportato dal consueto gigantismo kitsch
dell'immarcescibile compositore Vangelis.
ALEXANDER è un'occasione mancata. Il film di una vita gestito con furia
trasandata o, peggio, filmato non pensando tanto al risultato finale, quanto
al piacere del sentirsi coinvolti in maniera troppo partecipe in una sorta
di sprofondamento nella Storia, senza lucidità e professionalità.
I registi visionari, come Stone o Abel Ferrara, ma non solo loro, si perdono
frequentemente nel "trip" della lavorazione, immergendosi fisicamente e
mentalmente nel progetto attraverso il quale vogliono distaccarsi dalla
realtà, forse nel tentativo di drogarsi per procura o, per così dire,
"metaforicamente". Un conto era Fassbinder, portato a forza sui set, ma
capace di tornare lucido per il tempo limitato delle riprese quotidiane,
prima di tornare a sprofondare nella narcosi, Morto a 36 anni, produsse una
sessantina di opere e diversi capolavori. Un altro conto sono coloro che
campano su cospicui anticipi della produzione senza avanzare di un passo nel
lavoro, immemori delle proprie splendide carriere.
Solo in particolari circostanze (JFK, PLATOON, TRA CIELO E TERRA) Stone è
stato capace di controllare la materia trattata col necessario distacco e,
spesso, la ricostruzione storica riguardava un periodo recente, da lui
conosciuto e vissuto direttamente e raccontato con dovizia di particolari ed
equilibrio tra invenzione e documentazione.
ALEXANDER, invece, non è troppo dissimile da THE DOORS, poiché analogo è il
rapporto di amore e di disprezzo che Stone stabilisce con le due figure di
visionari con le quali si confronta.
Megalexandros, come Jim Morrison, è un eroi morto in gioventù; entrambi
furono capaci di immaginare e quindi mettere in pratica devastanti
superamenti dei limiti percettivi della mente, coadiuvati in ciò da additivi
di varia natura. Le doors of perception vennero già abbattute da Alessandro
quando immaginava di raggiungere i limiti del conoscibile, fosse questo
spaziale (le folli campagne in Asia nord-orientale e poi in India) o
culturale e scientifico (la biblioteca d'Alessandria e le invenzioni
tecnologiche là messe in pratica). Entrambi capaci di grandi atti di amore e
di sadismo assoluto, entrambi amati ed odiati dai sodali o presunti tali,
entrambi capaci di portare all'auto-distruzione alcune delle figure
femminili che li circondavano.
Stone pensa di essere, o è effettivamente, portatore degli stessi tratti
distintivi dei suoi eroi (anche J F Kennedy era un visionario) e in ciò sta
la sua grandezza e ovviamente il suo limite.
ALEXANDER indugia molto sul condottiero bambino e adolescente, tra mancato
rapporto edipico con la madre e amore contrastato verso il padre, del quale
voleva essere la replica ingigantita.
Ma il tratteggio della figura di Olimpia, costantemente associata al simbolo
del serpente e a tragiche raffigurazione "grottesche" ispirate a Medea e
alla sua vicenda, è condotto seguendo un'attitudine ossessivo-compulsiva più
del regista che del personaggio storico. Per quanto crudele e possessiva,
Olimpia non può essere la summa del Male in chiave femminile, a meno che non
si creda ad una misoginia del regista. Anche Roxane, la moglie afgana di
Alessandro, segue lo schema e replica persino i tratti somatici della Jolie:
entrambe donne-medusa, animalesche e androgine, aiutano a creare un solco
netto tra universi maschile e femminile.
Non crediamo che così si fornisca un buon servizio alla Storia, poiché al di
là di documentate discriminazioni, la donna macedone, greca, ma anche
persiana (barbara), non era classificabile in categorie sommarie che la
volevano alternativamente vittima-prostituta o matrona capace di ordire
trame e tessere la tela attorno a chiunque.
La promiscuità e l'adulterio reali, inoltre, erano tipici di ogni epoca, per
cui non sembra opportuno soffermarsi troppo a lungo sui contenziosi tra
moglie e marito sulla paternità del condottiero.
Tutta la prima parte del film soffre di questa "ipertrofia" didascalica nel
raccontare le vicende familiari. Anche la regia si siede presto su
schematismi da "espressionismo" di secondissima mano, tra posizionamenti
sghembi della m.d.p. e ossessione per il dettaglio, ma senza un attento
studio dell'illuminazione contrastata (utile nel caso di Olimpia e
Alessandro bambino, sino al momento del tentato omicidio da parte di
Filippo) e con un decor solo apparentemente attento e documentato.
I blocchi narrativi si succedono un po' meccanicamente, con raccordi
garantiti dalla sola voce fuori campo del narratore Tolomeo, che "salta"
anni importantissimi e crea le ellissi di cui si diceva. Ritrovare il
macedone improvvisamente cresciuto, dopo i brevi insegnamenti di Aristotele
e le lunghe scene d'iniziazione teorica e pratica al binomio azione-vita
("assolo" di Filippo sul tema Gloria & Necessità del Dolore, supportato da
rozze raffigurazioni di Eracle e Medea; dimostrazione di destrezza e potere
magico-divino del piccolo eroe nel domare il cavallo Bucefalo), ci lascia
sorpresi e indispettiti. Siamo già a Gaugamela e la storia è troppo spostata
verso la fase "decadente" (o pre-ellenistica, se vogliamo considerarne la
futura portata culturale) della vicenda storica del grande Re di tutti i
popoli.
Per essere coerente con l'idea di Alessandro sensibile uomo di cultura,
unificatore e pacificatore, simbolo di tolleranza verso etnie diversa dalla
propria e, in definitiva, anticipatore della convivenza tra Oriente e
Occidente quale sarebbe stata più volte auspicabile nei secoli, Oliver Stone
avrebbe dovuto girare un film meno survoltato e meno attento all'altro tipo
di "apertura" del condottiero: quella verso le varie forme di sessualità. Il
regista è ossessionato dalle ambiguità, ma dimentica che nella Grecia del IV°
secolo prima di Cristo certi schematismi o definizioni di precise identità
sessuali non avevano cittadinanza alcuna.
Il tono epico della parte finale, che non riesce a toccare le corde della
tragedia, sta tutto nell'incommensurabile grandiosità di una Fine fortemente
voluta da Alessandro, che concepiva solo l'esplorazione di nuove mete,
spazi, frontiere e spesso faceva riferimento all'Ade e alla volontà di
gloria eterna ottenuta in una breve vita.
Precedentemente, la fase persiana risulta essere un po' troppo lunga, anche
se non si può negare il fascino della malata ricostruzione
scenografico-computeristica di Babilonia e della corte di Dario sottomessasi
al nuovo re, con una efficace illuminazione dall'alto (naturale?) del
palazzo appena conquistato e i cupi cromatismi orientali così diversi dalla
lucentezza greca.
Il cast è anch'esso spesso sopra le righe, meno la Jolie, che non riesce ad
essere veramente fatale o adeguatamente perversa. Farrell, al di là del set
di parrucche, non è plausibile nelle vesti di Alexander the Gay, come lo
hanno ribattezzato gli americani, specie se Efestione, la replica di
Patroclo nel sogno del Re di essere Achille, ha la faccia inespressiva di
Jared Leto, che con quelle "extension" avremmo visto meglio in PARTY MONSTER.
Da non dimenticare che il figlio di Alessandro e Roxane, fu ucciso
tredicenne da Tolomeo, qui uno zoppicante Anthony Hopkins, e non da
Cassandro.
Voto: 23/30
21:01:2005 |