
Soldini ha un bel dichiarare ai quattro
venti l’estraneità di questo suo ultimo film da
Pane e tulipani. I
punti di contatto sono anche troppi: la commedia piccolo-surreale,
l’accozzaglia geografica di personaggi e situazioni, un maturo
protagonista femminile alle prese con qualche crisi personale da
risolvere, e quant’altro. Così come è evidente un tentativo di
evoluzione da quel film: si prova a complicare la struttura, ad
aumentare il numero dei personaggi, a mettere più carne al fuoco. Si
prova perfino a incastonare il dramma, con una serie di disgrazie (la
morte di Romeo, di sua madre, l’invalidità della moglie, eccetera)
buttate un po’ lì cinicamente come farebbe un Almodovar (al quale
fanno indubbiamente pensare scene come quella in cui la Maglietta va
al cinema e si vede sullo schermo, o quella, banalmente autoriflessiva
come nei film dello spagnolo, in cui si mette a fare previsioni
generiche su come andrà avanti il film stesso, per non parlare delle
scenografie e dei costumi più camp che mai). Certo, oltre al
cinismo c’è anche la furbizia, e dunque lutti sì, ma piazzati nel
posto più drammaturgicamente ininfluente (uno all’inizio, quando
l’empatia col personaggio è ancora nulla, e uno alla fine, quando
ormai i giochi sono fatti e il personaggio non si sarebbe neanche più
visto).
Sotto l’aggrovigliata trama che intreccia bizzarramente lampadine che
si spengono, figli che si scoprono orfani, infedeltà coniugali varie e
altro, c’è il tradizionale principio-cardine della commedia: la
continua rottura e ricomposizione dell’armonia. E non c’era certo
bisogno di una scena lunghissima con un cinese che ce lo spiega,
perché lo si capisse. Rispetto a
Pane e tulipani, oltre
al placido alternarsi di ordine e disordine c’è un’insistenza maggiore
sulla meccanica stessa dell’armonia. Tante le suggestioni concettuali
in questo senso, dall’improvviso filosofeggiare postmoderno di Romeo
sul collage di stili come creazione autenticamente personale (toh,
Almodovar un’altra volta) all’insistere sulla dualità stasi-movimento
(il surplace ciclistico più volte tirato in ballo da Gustavo,
l’invalida che riesce a camminare) alle allusioni energetico-luminose
della strana prerogativa di Agata di spegnere le lampadine che le
stanno intorno e solo in seguito riuscire a accenderle e spegnerle a
comando.
“Se non si entra nella grotta della tigre non se ne esce neppure”,
questa la morale che ci consegna Agata alla fine. Il primo a non
entrare nella grotta è Soldini stesso. Perché mille maestri della
commedia ci hanno insegnato che la messa in scena non dà semplicemente
ordine al caos, ma lo “fagocita” in maniera rigorosamente non
indolore; lo capisce perfino
La rivincita delle bionde con la sua regia talmente turgida,
compressa e diretta da rendere genuinamente esplosivo l’irrompere
puntualissimo della gag nel corso di ogni scena; un meccanismo (il
grande paradosso della commedia classica) talmente ordinato che la
minima variazione produce il massimo disordine. Qui invece cosa
succede? Ci si accontenta di cucire con ago e filo pezzetti di
narrazione e di set, sfruttando disonestamente la pur paziente,
apprezzabile e minuziosa asciuttezza della tecnica utilizzata (le
panoramiche e i carrelli sui personaggi immobili, le inquadrature di
geometrica semplicità, focale spesso lunga ad appiattire l’immagine,
montaggio diligente e poco invadente). Il caos che finge di essere il
film viene ridotto all’ordine per spezzettamento, ridimensionato in
modo da poter tessere un ordine artificioso e non trasceso con una
messa in scena dalle maglie, in un modo o nell’altro, sufficientemente
ampie. Così non funziona.
Voto: 24/30
28.02.2003
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