AGATA E LA TEMPESTA

di Sivio Soldini

Con: Licia Maglietta, Emilio Solfrizzi, Marina Massironi

di Marco GROSOLI

Soldini ha un bel dichiarare ai quattro venti l’estraneità di questo suo ultimo film da Pane e tulipani. I punti di contatto sono anche troppi: la commedia piccolo-surreale, l’accozzaglia geografica di personaggi e situazioni, un maturo protagonista femminile alle prese con qualche crisi personale da risolvere, e quant’altro. Così come è evidente un tentativo di evoluzione da quel film: si prova a complicare la struttura, ad aumentare il numero dei personaggi, a mettere più carne al fuoco. Si prova perfino a incastonare il dramma, con una serie di disgrazie (la morte di Romeo, di sua madre, l’invalidità della moglie, eccetera) buttate un po’ lì cinicamente come farebbe un Almodovar (al quale fanno indubbiamente pensare scene come quella in cui la Maglietta va al cinema e si vede sullo schermo, o quella, banalmente autoriflessiva come nei film dello spagnolo, in cui si mette a fare previsioni generiche su come andrà avanti il film stesso, per non parlare delle scenografie e dei costumi più camp che mai). Certo, oltre al cinismo c’è anche la furbizia, e dunque lutti sì, ma piazzati nel posto più drammaturgicamente ininfluente (uno all’inizio, quando l’empatia col personaggio è ancora nulla, e uno alla fine, quando ormai i giochi sono fatti e il personaggio non si sarebbe neanche più visto).
Sotto l’aggrovigliata trama che intreccia bizzarramente lampadine che si spengono, figli che si scoprono orfani, infedeltà coniugali varie e altro, c’è il tradizionale principio-cardine della commedia: la continua rottura e ricomposizione dell’armonia. E non c’era certo bisogno di una scena lunghissima con un cinese che ce lo spiega, perché lo si capisse. Rispetto a Pane e tulipani, oltre al placido alternarsi di ordine e disordine c’è un’insistenza maggiore sulla meccanica stessa dell’armonia. Tante le suggestioni concettuali in questo senso, dall’improvviso filosofeggiare postmoderno di Romeo sul collage di stili come creazione autenticamente personale (toh, Almodovar un’altra volta) all’insistere sulla dualità stasi-movimento (il surplace ciclistico più volte tirato in ballo da Gustavo, l’invalida che riesce a camminare) alle allusioni energetico-luminose della strana prerogativa di Agata di spegnere le lampadine che le stanno intorno e solo in seguito riuscire a accenderle e spegnerle a comando.
“Se non si entra nella grotta della tigre non se ne esce neppure”, questa la morale che ci consegna Agata alla fine. Il primo a non entrare nella grotta è Soldini stesso. Perché mille maestri della commedia ci hanno insegnato che la messa in scena non dà semplicemente ordine al caos, ma lo “fagocita” in maniera rigorosamente non indolore; lo capisce perfino La rivincita delle bionde con la sua regia talmente turgida, compressa e diretta da rendere genuinamente esplosivo l’irrompere puntualissimo della gag nel corso di ogni scena; un meccanismo (il grande paradosso della commedia classica) talmente ordinato che la minima variazione produce il massimo disordine. Qui invece cosa succede? Ci si accontenta di cucire con ago e filo pezzetti di narrazione e di set, sfruttando disonestamente la pur paziente, apprezzabile e minuziosa asciuttezza della tecnica utilizzata (le panoramiche e i carrelli sui personaggi immobili, le inquadrature di geometrica semplicità, focale spesso lunga ad appiattire l’immagine, montaggio diligente e poco invadente). Il caos che finge di essere il film viene ridotto all’ordine per spezzettamento, ridimensionato in modo da poter tessere un ordine artificioso e non trasceso con una messa in scena dalle maglie, in un modo o nell’altro, sufficientemente ampie. Così non funziona.
 

Voto: 24/30

28.02.2003

 


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