AMERICAN GANGSTER

di Ridley Scott

con Denzel Washington, Russell Crowe

di Gabriele FRANCIONI

 

26/30

 

Il Padrino Nero, ovvero AMERICAN GANGSTA

 

Abbiamo, tutti insieme: squarci delle location in cui venne girato il car chase per eccellenza (THE FRENCH CONNECTION); ammiccamenti depalmiani all’“intoccabilità” del clan e del singolo (THE UNTOUCHABLES, SCARFACE); brevissime sezioni en ralenti o in serratissimo montaggio alternato, in cui viene narrato il “farsi” del business nel momento dell’acquisizione della roba, della merce, dell’eroina (GOODFELLAS, CASINO); almeno due momenti in cui la sacralità del Rito - prima il convivium familiare attorno al desco e versus immagini di neri uccisi da overdose, poi il finale giocato tra Santa Messa e massiccia entrata in campo del Law & Order- tale sacralità, dicevamo, viene posta in netta contrapposizione alla mortale assenza di sacro del quotidiano e del Reale (THE GODFATHER);abbiamo, infine, scandaglio solo visivo del Vietnam come metafora di ogni “impantanamento” dell’America bellica (THE DEER HUNTER).

 

Il Padrino Nero di Scott ha un titolo perfetto per ciò che si prefigge: essere la summa (senz’anima, parzialmente adrenalinica, contenutisticamente scarna, ma professionalmente impeccabile) di (quasi) tutto il gangster-movie americano degli anni Settanta e Ottanta partorito dalla fucina della cosiddetta New Hollywood.

Sviluppo e altra declinazione possibile del titolo originale, quindi:

 

a - (AN INTRODUCTION TO) AMERICAN GANGSTER (MOVIES);

b – AMERICAN GANGSTA.

 

Sembra quasi di assistere allo scorsesiano “Viaggio nel cinema americano”, ma senza voice over di Scott (che è inglese…).

 

White Powder, Black Power

 

Non è nostra intenzione sminuire la portata di un solido, zaillianissmo film (Zaillian ha scritto e diretto il costipatissimo ALL THE KING’S MEN), sostanzialmente “d’azione” e ben teso.

Il problema è che non si vuole rinunciare proprio a nulla, nella foga “produttiva” di qualcosa che non può avere, non vuole avere profondità.

L’ascesa del nero Lucas alle vette inimmaginabili e razzisticamente inattingibili del narcotraffico newyorchese di fine anni ’60 (è una storia vera) vede cadere o essere solo accennata quella che avrebbe potuto essere materia sulfurea per un capolavoro: il carattere eversivo, quasi “eretico”, rispetto ai dettami di un anti-Credo fatto di codici e regole mafiose da primitiva accolita familiar-religiosa, del potere nero, qui, sì, black power effettivamente messo in atto.

 

John Singleton l’avrebbe girato molto meglio, un gradino sopra il mezzo capolavoro FOUR BROTHERS (sottostimato).

 

Certo, la reciproca confessio finalis tra Crowe e Washington (l’attore “perfetto”, colui che ancora non gigioneggia dopo 100 film) è un gran bel pezzo di cinema: il poliziotto onesto, indi “sfigato”, specchia la propria eresia - non ha rubato il milione di dollari di una partita di droga- in quella del boss di colore, che nessuno poteva immaginare capace di sostituirsi alla mafia italica.

 

La sensazione, però, è che il perno attorno al quale TUTTO avrebbe dovuto girare, sia solo un ulteriore elemento accessorio in un ambiente narrativo e in spazi filmici già arredatissimi.

 

Abbiamo avuto citazionistici brividi intuendo la contrapposizione finale e risolutiva tra il boss nero che serra moglie e parenti in chiesa e il drappello di cops duri e puri che scende nei seminterrati dove viene lavorata la white powder appena arrivata dal Vietnam dentro le casse da morto dei soldati caduti in guerra e sgomina l’intero “bisiniss”.

 

Sarebbe stato eccessivo montare in parallelo, come in THE GODFATHER I

 

Invece di limitarsi a inquadrare il naso veramente pinocchiesco di Nixon che, 1973,  annuncia in tv la fine della guerra, Scott avrebbe potuto spendere qualche centinaio di metri di pellicola in più per andare al cuore di tenebra di questa folle vicenda, in cui white pow(d)er e black power implodono a braccetto e tracciano i confini di un doppio orrore –il pogrom di un popolodistante e innocente & lo sterminio fuori campo degli adoratori del “Blue Magic”, la purissima eroina asiatica- ma senz’anima e “cervello”, lasciando, cioè, che le immagini coprano testi/linee di pensiero/”messaggi” che svaniscono nel non detto.

è come se il regista sperasse di tirar fuori un peso massimo piglia-Oscar (ma le nomination gli hanno negato il piacere, nel caso in cui non gli fosse bastato THE GLADIATOR), mai spinto oltre la soglia dell’enunciabile, mai troppo “in là”.

AMERICAN GANGSTA sembra scrutare “dietro” lo schermo velato del PADRINO, sembra poter raccontare un “oltre” pazzesco mai visto prima (pensiamo alla potenza immaginifica delle bare cariche di droga, pensiamo a come Joe Dante e lo stesso Singleton avrebbero fatto un film solo su questo, invece che narrare l’intera ascesa & caduta dell’Al Capone aggiornato-e-ribaltato, cioè ne(g)ro) e invece si ferma sulla soglia del baratro, timoroso più che asciutto, afasico più che silenzioso, impotente più che disincantato.

 

23/01/2008

AMERICAN GANGSTER
Regia: Ridley Scott
Stati Uniti d'America 2007, 157'
DUI: 18 gennaio 2008
Genere: Drammatico