
L’importanza
di raccontarsi, nel senso impersonale e riflessivo del termine, "storie":
ecco la pesta in gioco del film in concorso di Walter Salles. E’ notte,
una carrellata all’indietro ci restituisce la camminata di un ragazzo
col cappello, Pacù, viso in ombra, che inizia a raccontare "una"
storia. Una faida inveterata tra due famiglie in lotta per la terra, l’onore
e… l’ottusa abitudine di odiarsi per avere qualcosa su cui imperniare
il tempo altrimenti insensato di una vita spesa nel lavoro, in raccolti
sterili, nella rendita avara dello zucchero di canna: siamo nelle steppe
del Brasile, inizio secolo. Il tempo della faida ha una sua matrice: un
secondo in più che passa è un secondo in meno che resta
da vivere a chi, come Tonho, deve scontare l’uccisione di un membro della
famiglia rivale. Il conteggio del tempo avrà termine alla luna
nuova (o quando il sangue del morto sarà ingiallito) perché
è questa la tregua che le due famiglie abitualmente si concedono
prima di vendicare i congiunti. Ma a sconvolgere quest’ordine arrivano
due circensi, fratello e sorella. Clara inizia all’amore Tonho, altrimenti
destinato a non conoscerlo mai e soprattutto regala un libro a Pacù,
il fratello minore del condannato, che comincia ad imbastire storie, che
poi dimenticherà, sulle illustrazioni del libro e che gli costeranno
il sequestro del medesimo ad opera del padre che lo vuole più intento
alla macina delle canne da zucchero, soprattutto ora che Tohno ha lasciato
la casa sulle tracce di Clara (e forse per sfuggire alla vendetta). Ma
il giorno in cui scade la tregua ritorna e la notte, dopo esser stato
con lei, si svestito all’aperto, esposto ai colpi del nemico che si è
avvicinato alla casa. Pacù si accorge di tutto e in un momento
capisce quel che gli è richiesto: indossa i vestiti del fratello,
esce dal recinto e si incammina nella notte: è la stessa scena
che abbiamo visto nell’incipit. Ora Pacù ci dice che questa era
la "sua" storia ma si chiede come mai fossero le altre storie
che aveva dimenticato e… giunge lo sparo. Il film potrebbe concludersi
ma si dilunga a chiarire ciò che si era già capito: il padre
abbraccia il fucile per una vendetta immediata ma la moglie ha buon gioco
urlandogli che ormai è tutto finito: "ma come, non capisci,
che tutto è finito?" Tacendo di alcune sequenze, come la storia
d’amore stereotipata e un po’ incredibile tra i due giovani, che abbassano
il tono del film, il finale è veramente sorprendente: che quel
ragazzo in ombra fosse Pacù lo spettatore accorto lo era venuto
a sapere già durante il film così come non è nuovo
vedere un film che si chiude sulla scena iniziale. Ma qui la soluzione
"formale" di montaggio si carica di una necessità "di
contenuto" che prende corpo solo durante la visione del film e che
consiste in ciò: la capacità di comprendere le storie e
soprattutto di saperle concludere. Cercheremo di spiegarci meglio. Delle
storie con cui è venuto a contatto Pacù ha trattenuto la
cosa più importante che poi ha saputo applicare alla sua: la conclusione.
Nel gesto Del ragazzo è esemplificato in maniera eminente che cos’è
avere intelligenza narrativa, che cosa significhi capire le storie e applicare
ciò che così abbiamo capito alla propria vita, senza intendere
ciò come un prima e un dopo (prima le storie e poi la loro applicazione
nella vita) ma piuttosto come una loro cooriginarietà o circolarità:
è travestendosi che Pacù finisce di capire la sua storia,
ma solo perché l’aveva già capita ora sa quel che deve fare
per concluderla sensatamente. La storia della faida, ora ri-raccontata
da Pacù si carica di un tempo più complesso, circolare,
più vivo e che non ha più niente a che vedere con la morta
linearità dei momenti del conto alla rovescia che aveva governato
fino a quel momento l’esistenza delle due famiglie: il sacrificio del
ragazzo non è stato inutile, tutti gli sono debitori d’amore.
Voto: 29/30
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