ABC AFRICA
di Abbas Kiarostami



Questo film-documentario, girato in digitale e poi riversato in 35mm, nasce da una richiesta specifica dell UWESO, l'organizzazione africana che si occupa degli orfani. Il film mostra proprio il fax ricevuto da Kiarostami dove si chiede al regista di documentare l'attivita dell'associazione in Uganda, l'epicentro della diffusione dell'Aids. Kiarostami accetta e lo vediamo arrivare in aereo, lui e pochi coraggiosi amici, tutti armati di una videocamera tanto da filmarsi a vicenda. Questa scelta di mezzi dà al film un'atmosfera molto più famigliare, informale e quindi veritiera. Tanto più che molto spazio è lasciato alle immagini, senza un commento che non aggiungerebbe niente alla forza visiva del prodotto. Attraverso lo sguardo di Kiarostami viaggiamo anche noi, nei meandri di un'Africa ferita ammorbata, sporca, povera, ma anche incredibilmente gioiosa e colorata. Il regista, infatti, non si sofferma solo sui corpicini di bambini ammalati, in un agghiacciante cronicario dell'Aids, ma va a conoscere le comunità di donne che l'UWESO sostiene, perlopiù vedove, con a carico decine di orfani (si calcola che adesso gli orfani ammontino a più di un milione e mezzo). E questi villaggi sono un'esplosione di canti ad ogni ora, danze, frotte di bambini che corrono, giocano ed inseguano il regista per farsi filmare. Le donne, e spesso anche i bambini, lavorano nelle piantagioni, lavorano sodo ed hanno di che vivere tenendo lontano lo spettro dell'Aids. ABC AFRICA è il ritratto di un popolo che tira avanti, nonostante tutto, che ama la vita mentre la morte si diffonde incontrollata, e si accontenta di poco: rispetto e dignità.



Voto:

Elena SAN PIETRO
16 - 11 - 01

INCONTRO CON ABBAS KIAROSTAMI PER LA PRESENTAZIONE DI ABC AFRICA
Abbas Kiarostami ha un’aria serena mentre entra in sala e guarda la platea con un sorriso. Porta degli occhiali da sole, che non si toglie per tutto il tempo della conferenza stampa, forse per l’abitudine orami acquisita a ripararsi dalla luce accecante dell’Africa; o forse per mettere una sorta di schermo tra sé ed il pubblico, per la paura di perdere qualcosa raccontando a tanta gente l’esperienza vissuta in Uganda durante le riprese di ABC AFRICA, il suo ultimo film. E così ci racconta dei bambini e del dolore e della speranza. Di chi è morto e di chi si è aggrappato alla vita con tutta la forza di cui era capace. A tratti si commuove, ma sempre con dignità, senza eccessi. Ci spiega che gli "appunti" raccolti con il digitale nel suo primo viaggio sono diventati il film nel momento stesso in cui si è reso conto che non avrebbe mai potuto cogliere certe sfumature, né girare certe scene con l’intera troupe di un 35mm. Ma oltre a questo, svela anche qualche piccolo segreto del suo cinema: ci dice che la decisione di girare una scena al posto di un’altra o del come girarla non è una scelta. Si viene rapiti da un sentimento, da un’emozione e si segue una strada: "Scegliamo una sola persona tra tante, una sola storia tra tante, un obbiettivo tra tanti, o forse, come dice Gabriel Garcìa Màrquez, veniamo scelti. Ma questo non lo sapremo mai, non sapremo mai quanto abbiamo scelto e quanto siamo stati scelti. Anche quando scegliamo non sappiamo esattamente il perché". E poi scherza sulla insistente predominanza nei suoi film di scene girate in automobile: "Credo molto nell’immagine fissa, ma mi rendo conto che possa essere stancante per lo spettatore; per questo giro molte scene in macchina: così chi si stanca può guardare il paesaggio che si muove!". Ma non è solo questo il motivo: in automobile le persone sono sedute una accanto all’altra e questo, secondo il regista iraniano, facilita il dialogo perché le pone, anche fisicamente, in una posizione di parità. Per rafforzare la sua tesi, racconta una storia che dice essere vera. Un paziente di una famosa psicanalista del suo Paese decide di citare in giudizio la dottoressa, attribuendole la colpa del suo divorzio. Così, da un giorno all’altro, vengono apposti i sigilli allo studio della psicanalista, in attesa della risoluzione del giudizio, e la dottoressa si ritrova senza un posto dove tenete le proprie sedute. Ma nel momento in cui comunica ai pazienti l’inagibilità della studio, apportando come giustificazione la rottura di un tubo dell’acqua, questi si ribellano e la implorano di trovare una soluzione per riuscire a non interrompere la terapia. Così la psicanalista, non avendo nessun altro posto dove andare, si convince a tenere le sedute nella propria macchina. Dopo un paio di mesi la questione si risolve, i sigilli vengono tolti e lo studio è di nuovo agibile. Ma i pazienti si rifiutano di tornarci e chiedono di poter continuare a tutti i costi le sedute in macchina. Kiarostami ci ha detto che questa storia sarà la trama del suo prossimo film e che egli stesso era uno dei pazienti. Sarà vero? Chissà… L’importante è che ci abbia raccontato un’altra bella storia, che l’abbia fatto con il suo modo pacato ed ironico e che ci abbia regalato, ancora una volta, un pezzettino della sua magia.

Francesca MANFRONI
20 - 11 - 01