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Elena
SAN PIETRO |
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Abbas Kiarostami ha un’aria serena mentre entra in sala
e guarda la platea con un sorriso. Porta degli occhiali da sole, che non
si toglie per tutto il tempo della conferenza stampa, forse per l’abitudine
orami acquisita a ripararsi dalla luce accecante dell’Africa; o forse per
mettere una sorta di schermo tra sé ed il pubblico, per la paura di perdere
qualcosa raccontando a tanta gente l’esperienza vissuta in Uganda durante
le riprese di ABC AFRICA, il suo ultimo film. E così ci racconta dei bambini
e del dolore e della speranza. Di chi è morto e di chi si è aggrappato alla
vita con tutta la forza di cui era capace. A tratti si commuove, ma sempre
con dignità, senza eccessi. Ci spiega che gli "appunti" raccolti con il
digitale nel suo primo viaggio sono diventati il film nel momento stesso
in cui si è reso conto che non avrebbe mai potuto cogliere certe sfumature,
né girare certe scene con l’intera troupe di un 35mm. Ma oltre a questo,
svela anche qualche piccolo segreto del suo cinema: ci dice che la decisione
di girare una scena al posto di un’altra o del come girarla non è una scelta.
Si viene rapiti da un sentimento, da un’emozione e si segue una strada:
"Scegliamo una sola persona tra tante, una sola storia tra tante, un obbiettivo
tra tanti, o forse, come dice Gabriel Garcìa Màrquez, veniamo scelti. Ma
questo non lo sapremo mai, non sapremo mai quanto abbiamo scelto e quanto
siamo stati scelti. Anche quando scegliamo non sappiamo esattamente il perché".
E poi scherza sulla insistente predominanza nei suoi film di scene girate
in automobile: "Credo molto nell’immagine fissa, ma mi rendo conto che possa
essere stancante per lo spettatore; per questo giro molte scene in macchina:
così chi si stanca può guardare il paesaggio che si muove!". Ma non è solo
questo il motivo: in automobile le persone sono sedute una accanto all’altra
e questo, secondo il regista iraniano, facilita il dialogo perché le pone,
anche fisicamente, in una posizione di parità. Per rafforzare la sua tesi,
racconta una storia che dice essere vera. Un paziente di una famosa psicanalista
del suo Paese decide di citare in giudizio la dottoressa, attribuendole
la colpa del suo divorzio. Così, da un giorno all’altro, vengono apposti
i sigilli allo studio della psicanalista, in attesa della risoluzione del
giudizio, e la dottoressa si ritrova senza un posto dove tenete le proprie
sedute. Ma nel momento in cui comunica ai pazienti l’inagibilità della studio,
apportando come giustificazione la rottura di un tubo dell’acqua, questi
si ribellano e la implorano di trovare una soluzione per riuscire a non
interrompere la terapia. Così la psicanalista, non avendo nessun altro posto
dove andare, si convince a tenere le sedute nella propria macchina. Dopo
un paio di mesi la questione si risolve, i sigilli vengono tolti e lo studio
è di nuovo agibile. Ma i pazienti si rifiutano di tornarci e chiedono di
poter continuare a tutti i costi le sedute in macchina. Kiarostami ci ha
detto che questa storia sarà la trama del suo prossimo film e che egli stesso
era uno dei pazienti. Sarà vero? Chissà… L’importante è che ci abbia raccontato
un’altra bella storia, che l’abbia fatto con il suo modo pacato ed ironico
e che ci abbia regalato, ancora una volta, un pezzettino della sua magia. |
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Francesca
MANFRONI |
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