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Il
film racconta di una ragazza e di sua madre entrambe stuprate dal nonno-padre
poi finito all’ergastolo, quindi contattate da un regista che dal loro
racconto, almeno in un primo momento, sembra non abbia ricavato altro
che un film di seconda serie fatto di un vile miscuglio di ambiguità e
provocazioni che da subito viene avvertito dallo spettatore (di Venezia
naturalmente, non quello del film) come una vera e propria parodia del
genere erotico alla "Laguna blu". Ma questa parodia non fa che accentuare
il vero dramma dissimulato che riemerge ogni volta vediamo il viso della
ragazza violentata guardare ingenuamente il film e non capire il travisamento
in atto sotto i suoi occhi ed a suo detrimento. Non solo. Nella sua "disonestà"
il regista non può fare a meno di svelare la violenza subita dalla ragazza
come profondamente avversata e assolutamente non voluta da lei che pure
ci viene presentata così provocante: da questo momento lo spettatore si
fa accorto ed inizia a pensare che forse anche il film nel film a cui
sta assistendo presta qualche cosa di vero alla realtà, cioè al film che
lo contiene: la gelosia o morbosità possessiva avvertita dalla madre per
le attenzioni dell’uomo verso la figlia, forse la civetteria stessa della
ragazza adolescente e soprattutto la leggerezza con cui si conclude il
film quando lei incorona il suo amore salendo nuda col suo giovane spasimante
in cima ad un albero dopo essere stata violentata dal padre e averlo ucciso.
Insomma il confronto dei due film produce nello spettatore una produttiva
inversione di prospettiva, grazie alla quale si rende comprensibile, anche
se non giustificabile, la violenza occorsa, superabile, perché alleggerito
dalla narrazione, il trauma subito e vero, anche se completamente fittizio,
il film visto. |
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Alessandro
MAZZANTI |
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