Un italiano (Sergio Castellitto) arrivato dal nulla incontra
uno scalcagnato circo ambulante. Si invaghisce della donna che manda avanti
la baracca (Jane Birkin), ma lei ha un segreto che le appesantisce la vita:
il marito morto per un incidente in pedana. Sarà proprio il misterioso
italiano a sbloccare la situazione.
E fin qui, il soggetto del film. Anzi: il suo spettro. Come sempre in
Rivette, di spettri si tratta. Quello che sarà probabilmente il suo
testamento è il suo film più spettrale, tra i tanti suoi spettrali, proprio
perché è il più solare. Le vette alpine della Francia meridionale offrono a
Rivette l’occasione per ripetere il punto di tutti i suoi film, ma mai come
stavolta in modo limpido, secco, preciso, netto, essenziale (è di gran lunga
il film più breve di Rivette). E “il punto” è, come sempre, la messa in
scena come redenzione, la ripetizione delle cose nella loro estensione
spaziale come il momento in cui il presente collassa sul passato e quindi il
teatro (arte della presenza per eccellenza) deborda nel cinema.
Mai come stavolta, tutto è sia alla più splendente luce del sole, sia
rattrappito e rinsecchito (in questo senso non hanno torto quelli che hanno
parlato di film “senile”): la sensazione di presenza è una cosa solo con il
suo spettro, con il suo scheletro. È la solita magia del cinema come
articolazione spaziale: la messa in scena, di nuovo, come ritualità
pneumatica che si lascia ammirare in sé e per sé. Lo scheletro del mondo che
diventa la sua stessa carne, portandosi con sé il gioco di soglie
finzione/realtà e teatro/mondo come al solito frequenti in Rivette: una
sequenza notturna in cui uno stupendo gioco di luci artificiali alterna un
baretto di provincia sullo sfondo del quadro a una improvvisata scena
teatrale intorno a un antistante lampione; o ancora, alla fine del film, gli
attori che si alternano ciascuno in un “a parte” rivolto verso il pubblico,
non in scena ma fuori, cioè non dentro al tendone ma davanti alla sua porta,
da fuori.
La studiata e regolarissima gradualità con cui l’italiano e lo spettatore
scoprono il mistero (prima un monologo della Birkin, poi una lieve allusione
di un personaggio secondario, e così via), che scorre parallela a quella del
graduale svelarsi della gag dei clown con i piatti che costituisce il pezzo
forte di quella carovana circense, si accompagnano alla metamorfosi di
Castellitto in vero e proprio metteur en scène.
È lui infatti a risolvere il trauma della Birkin solo
costruendo in scena, su quella stessa scena che lui solo come nessuno riesce
a svecchiare e a confondere con la vita, la ripetizione/risoluzione
dell’evento traumatico nel modo più limpidamente psicanalitico che si possa
immaginare. È il suo personaggio insomma a essere l’artefice e allo stesso
tempo il protagonista di quel cerimonioso tessersi dello spazio che Rivette
sa ancora trovare nel cuore del mondo, e riprodurre sullo schermo a forza di
movimenti di macchina e di corpi coordinati in mondo da farci balenare
ancora la sensazione di cosa sia ciò che si continua a chiamare “messa in
scena”.
12:09:2009
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