VENEZIA.66

 

36 vues du Pic Saint Loup

di Jacques Rivette
Francia, 84'

 

In Concorso

 

29/30

Un italiano (Sergio Castellitto) arrivato dal nulla incontra uno scalcagnato circo ambulante. Si invaghisce della donna che manda avanti la baracca (Jane Birkin), ma lei ha un segreto che le appesantisce la vita: il marito morto per un incidente in pedana. Sarà proprio il misterioso italiano a sbloccare la situazione.
E fin qui, il soggetto del film. Anzi: il suo spettro. Come sempre in Rivette, di spettri si tratta. Quello che sarà probabilmente il suo testamento è il suo film più spettrale, tra i tanti suoi spettrali, proprio perché è il più solare. Le vette alpine della Francia meridionale offrono a Rivette l’occasione per ripetere il punto di tutti i suoi film, ma mai come stavolta in modo limpido, secco, preciso, netto, essenziale (è di gran lunga il film più breve di Rivette). E “il punto” è, come sempre, la messa in scena come redenzione, la ripetizione delle cose nella loro estensione spaziale come il momento in cui il presente collassa sul passato e quindi il teatro (arte della presenza per eccellenza) deborda nel cinema.
Mai come stavolta, tutto è sia alla più splendente luce del sole, sia rattrappito e rinsecchito (in questo senso non hanno torto quelli che hanno parlato di film “senile”): la sensazione di presenza è una cosa solo con il suo spettro, con il suo scheletro. È la solita magia del cinema come articolazione spaziale: la messa in scena, di nuovo, come ritualità pneumatica che si lascia ammirare in sé e per sé. Lo scheletro del mondo che diventa la sua stessa carne, portandosi con sé il gioco di soglie finzione/realtà e teatro/mondo come al solito frequenti in Rivette: una sequenza notturna in cui uno stupendo gioco di luci artificiali alterna un baretto di provincia sullo sfondo del quadro a una improvvisata scena teatrale intorno a un antistante lampione; o ancora, alla fine del film, gli attori che si alternano ciascuno in un “a parte” rivolto verso il pubblico, non in scena ma fuori, cioè non dentro al tendone ma davanti alla sua porta, da fuori.
La studiata e regolarissima gradualità con cui l’italiano e lo spettatore scoprono il mistero (prima un monologo della Birkin, poi una lieve allusione di un personaggio secondario, e così via), che scorre parallela a quella del graduale svelarsi della gag dei clown con i piatti che costituisce il pezzo forte di quella carovana circense, si accompagnano alla metamorfosi di Castellitto in vero e proprio metteur en scène.

È lui infatti a risolvere il trauma della Birkin solo costruendo in scena, su quella stessa scena che lui solo come nessuno riesce a svecchiare e a confondere con la vita, la ripetizione/risoluzione dell’evento traumatico nel modo più limpidamente psicanalitico che si possa immaginare. È il suo personaggio insomma a essere l’artefice e allo stesso tempo il protagonista di quel cerimonioso tessersi dello spazio che Rivette sa ancora trovare nel cuore del mondo, e riprodurre sullo schermo a forza di movimenti di macchina e di corpi coordinati in mondo da farci balenare ancora la sensazione di cosa sia ciò che si continua a chiamare “messa in scena”.
 

12:09:2009

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Venezia, 02/12 settembre 2009