2001 ODISSEA NELLO SPAZIO
di Stanley Kubrick



Schermo nero e musica dissonante. Così ha inizio ancor prima dei titoli di testa la versione restaurata in originale del film del 1968 di S. Kubrick. La stessa scena ci verrà riproposta tra due sequenze molto importanti: quella in cui il computer di bordo Hal legge labiale le intenzioni mute dei due astronauti decisi ad eliminarlo e la sequenza dove Mark, uno dei due, troverà una morte silenziosa nello spazio cadendo vittima proprio di una "risoluzione" del computer che supponiamo maturata in quell'intervallo di schermo nero e sonoro. Nascono subito alcune domande: quando - dato che l'inquadratura per lo spettatore non è nuova - viene propriamente presa una tale "decisione" da Hal? Cosa significa che ciò venga ascritto come possibilità ad una macchina, sia pure intelligente? Senza affrontarle subito cerchiamo di portarvi dei chiarimenti partendo da ciò che già si è imposto nelle sequenze sopra descritte e che, attraverso esempi più puntuali, emergerà come il vero protagonista dell'intero film: il rapporto tra suono ed immagine. E lo diciamo non tanto per la maestria con cui Kubrick ci fa vedere "l'alba dell'uomo" attraverso la musica del "Così parlò Zarathustra" o le navi spaziali che danzano sospese sulle note del "Danubio blu" di J. Strauss quanto per la più forte e autonoma funzione narrativa che il "sonoro" assume in riferimento al "visivo". Il gioco proposto tra i due registri significanti è variamente articolato andando dalla divergenza contrastante e spiazzante al parallelismo (ma forse mai fino alla sovrapposizione): per dare subito un esempio di ciò che intendiamo analizziamo, rispettivamente, la sequenza in cui prima David e poi Mark escono dalla navicella per sostituire un elemento all'astronave madre e quella in cui i primati, progenitori dell'uomo, si ritrovano ai piedi del monolito nero.
Nel primo caso il respiro dell'uomo all'interno della sua tuta spaziale ci viene proposto in un continuum sonoro totalmente indifferente a quell'alternanza di primi, medi piani o panoramiche dell'astronauta (o della sua navicella) che, rifiutando qualsiasi soggettiva, ce lo restituisce perennemente "in campo". Ma fin qui niente di conturbante se è vero che il cinema ci ha abituati da tempo a non esigere necessariamente una soggettiva per renderci comprensibile l'udire ciò che solo il personaggio, dal suo posto, può o immagina: insomma, lo spettatore (il lettore) ha sempre avuto un sapere aggiunto e dei vantaggi sul personaggio e questo non sarebbe che uno di questi. Ma lo spiazzamento nasce, e la convenzione di tale linguaggio crolla, quando ci accorgiamo che i due registri stanno narrando diversamente, quando cioè "visivamente" la navicella prima e l'astronauta poi escono nello spazio aperto e i loro gesti lenti e trattenuti si stagliano sulla nera profondità del vuoto ma poi, ciò che viene arrestato a livello visivo, cioè questo gioco a scatole cinesi, viene "sonoramente" ripreso e continuato: è proprio il corpo dell'uomo a venire fuori dal suo scafandro e ad occupare, ma solo con il respiro, la nostra posizione di spettatori dalla quale lo vediamo muoversi di fronte a noi. A questo punto è avvenuto uno sdoppiamento: l'uomo è rappresentato contemporaneamente in due luoghi diversi: uno occupato dal visivo l'altro dal sonoro. Come è accaduto? E' il significato dell'immagine, cioè quell'uomo che via via si spoglia delle sue protezioni per ritrovarsi sempre più esposto e in balia del vuoto, che arriva ad attribuire al sonoro, che pure resta materialmente invariato, uno statuto narrativo diverso: da quasi-extradiegetico che era, cioè parte sì dell'evento narrato (il respiro è dell'astronauta) ma destinato liberamente e per convenzione dall'autore allo spettatore fuori da qualsiasi soggettiva che lo supporti, diventa quasi-intradiegetico, cioè pur non incarnandosi in una soggettiva sempre possibile dell'astronauta "in campo" esige da ogni spettatore che lo assuma sul suo sguardo in quanto soggettiva dell'astronauta "fuori campo". Viene così sottratto allo spettatore il suo luogo privilegiato di puro osservatore e di unico depositario del suono affinché sia trascinato dal personaggio nell'immagine filmica o, che è lo stesso, ri-comprenda l'immagine visiva in un'immagine sonora di cui lui stesso fa parte. L'istanza riflessiva o sdoppiante che istituisce ora il personaggio del film non solo come un "soggetto agente o vedente" (colui che risistema l'antenna radio dell'astronave) ma come "soggetto riflettente" - perché visto, riflesso dallo spettatore e da se stesso a partire da un luogo altro che non coincide con quello del suo agire e ritrovarsi determinato - è ciò che propriamente porta lo spettatore a fare emotivamente esperienza dell'angoscia di ritrovarsi sospesi nel vuoto, nella contingenza di una situazione estrema che può annullarlo definitivamente. Il rapporto tra sonoro e visivo in questa sequenza arriva a significare dunque una condizione umana nella quale ci scopriamo sdoppiati e perciò riflettenti su noi stessi e sulla nostra condizione: Merlau-Ponty a questo riguardo parla dell'uomo come di una scissione nel "cuore stesso del visibile" perché è capace di riflessione solo in quanto vedente e al tempo stesso parte del visibile, senza che quel "al tempo stesso" significhi piena reciprocità o sovrapponibilità dei due versanti: la riflessione non potrà mai recuperare trasparentemente ciò da cui ha avuto origine, il vedente non si vedrà mai pienamente come visto, il sonoro e il visivo, deputati a rappresentare questo gioco pieno di zone d'ombra, di scarti, non potranno non trovarsi segnati da una differenza di luogo che li alimenta a vicenda. Riprenderemo in seguito la questione premendoci al momento far notare come Kubrick sfrutti il meccanismo dell'enunciazione visiva e sonora per introdurre il tema dello sdoppiamento che vedremo svolgersi palesemente nelle scene finali del film. Non da ultimo osserviamo che l'istanza riflessiva qui fatta scattare dal sonoro è pensata come talmente originaria e costitutiva dell'uomo che quando Hal farà morire Mark "perdendolo" nello spazio, la navicella agli ordini del computer rivolgerà le sue chele meccaniche e trancianti verso lo spettatore, cioè verso il luogo occupato dal sonoro, così che da quel momento in poi il silenzio sarà il segno che denota, in collaborazione col visivo, la mancanza di ossigeno ma che significa, indipendentemente da questo, il venir meno dell'interno sdoppiamento dell'uomo e quindi nel suo complesso la morte. Passiamo ora a descrivere la seconda sequenza in cui, come abbiamo ipotizzato, dovremmo ritrovare un "parallelismo" e non uno "scarto" come in precedenza, tra l'attività dei due registri significanti.
I primati grazie al monolito nero scoprono, ma forse inventano, la tecnica e il linguaggio o, è meglio dire, il mezzo. Heidegger pensava il "mezzo" come caratterizzato dalla sua utilizzabilità, dal suo essere genericamente e indeterminatamente utilizzabile ma di volta in volta in un uso determinato (solo da questo punto di vista "applicativo o di specificazione" avanziamo l'analogia tra oggetti e linguaggio - detto anche "medium", che media - in quanto entrambi "mezzi"). Dunque ciò che è richiesto da questa pratica applicativa è almeno una capacità riflessiva di distanziamento da fini immediati e contingenti e una progettualità che permetta ad esempio di utilizzare una parola anche in assenza del suo referente oppure un pezzo di legno non tanto per avvicinarci questo frutto che non arriviamo con le mani, quanto per costruire, poniamo, una scala da poter utilizzare in ogni contesto simile. Come altri oggetti un osso (una parola) ha nelle mani di un uomo una predisposizione generica a servire (significare) che si specificherà in un contesto dato: per sbriciolare altri ossi e ricavarne schegge o per abbattere selvaggina o un altro vivente che gli contendesse uno stagno d'acqua. Tale capacità la supponiamo dunque derivata dal monolito nero, forse per magia, perché è ciò che vediamo accadere nei primati di 2001 dopo l'incontro con esso. Ma cosa capita all'apice della sequenza che narra di questo incontro? Kubrick ci fa vedere, in una soggettiva verso l'alto di un primate ai piedi della pietra nera, l'allineamento in asse di sole, luna e monolito in un'atmosfera di suoni già umani (cioè vocali, in luogo dei versi di grilli, cicale e animali feroci) che accompagna da subito la comparsa della pietra nera: che un tale suono sia intra- o extradiegetico, cioè udito anche dalle scimmie o meno, resta ancora del tutto indeciso. All'origine dell'umanità, sembra volerci suggerire Kubrick, sta dunque una "fattualità", un evento che si lascia cogliere dai progenitori dell'uomo come un'armonia visiva, un ordine formale soltanto contingente - lo stare lì del monolito, delle sfere celesti e delle scimmie - e che Kubrick non fa che rimettere in scena sotto gli occhi dello spettatore (in una soggettiva) per chiedergli di convenire su tale misura soltanto fattuale dell'esistente. Ricordiamo che Kant vedeva una "finalità della natura a scopi, senza scopo [determinato]" in ciò che nella natura o nell'arte l'uomo si dispone a chiamare "bello" sulla base di un giudizio che colga esteticamente la finalità o la sensatezza in genere di una rappresentazione (cioè appunto la sua bellezza): un giudizio fondato su di un "sentire in comune" degli uomini che pure non è già in loro possesso ma perseguibile per fondare una comunità futura di giudicanti perché un tale giudizio esige l'accordo di ognuno anche se soltanto e proprio sulla base di un ordine, una misura esibiti da quest'immagine contingente che ci sta di fronte, senza che un qualsiasi concetto, come potrebbe essere qui quello di allineamento, possa servirci come regola o fondamento "di bellezza". Per Kant insomma il bello è qualche cosa che accade e che accadendo ci rende consapevoli del fatto che per coglierlo stavamo già anticipando un senso, seppure indeterminato, di cui non abbiamo alcuna regola, alcun parametro che non sia quello fornitoci dalla conformazione visiva dell'esistente che abbiamo di fronte: proprio ciò che può accadere ai primati e allo spettatore ma per il quale non abbiamo alcuna garanzia. Chiamiamo anche lo spettatore a condividere l'esperienza del primate perché quest'immagine, che rappresenta la vera soglia visiva di passaggio dalla scimmia all'umano - il primate infatti se ne sovviene proprio nell'istante di esitazione che precede la percussione dell'osso come di un "mezzo" e in cui inizia a risuonare il "Così parlò Zarathustra" - è una delle poche soggettive del film. Inoltre una soglia simile, anche se sonora, era già stata varcata almeno dallo spettatore nell'udire quelle voci indistinte che, a meno di non interpretarle come emissione sonora dello stesso monolito (il che è sempre possibile in senso mistico o ultraterreno) o come immaginate dagli stessi primati (ma allora l'umanità sarebbe già in loro e il film non registrerebbe che delle coincidenze), sono già umane in quanto indirizzate innanzi tutto a lui affinché diventi un quasi-personaggio del film. Kubrick insomma, per sfuggire ad una spiegazione causale della nascita dell'uomo (spiegazione che dovrebbe o retrocedere all'infinito o appellarsi ad un credo, seppure in altre forme di vita), introduce una comprensione circolare dell'evento chiedendo allo spettatore di apportare ciò che di già umano è richiesto alla scimmia per diventare nostro progenitore. Sembra quasi che alla comunità futura degli spettatori spetterà sempre il dovere di fondare, convenendo sulla bellezza dell'immagine ai piedi del monolito, quell'umanità che la scimmia da sola non poteva fondare mancandole ciò che vi è di più proprio nell'uomo: quella universalità della capacità estetica di cui sopra. Il paradosso è evidente ma non di meno produttivo, cioè ricomposto in una struttura significante: è attraverso il gioco tra sonoro e visivo che un tale paradosso diventa produttivo: il "Così parlò Zarathustra" che udiamo in questa sequenza non è più quello extradiegetico dei titoli di testa ma è quello quasi-intradiegetico (come lo sono quelle voci umane) che il primate, nell'immaginazione ormai coinvolta dello spettatore, sembra anticipare nella sua possibilità 4 milioni di anni prima della sua realizzazione effettiva: è stata anticipata una predisposizione dei rumori a diventare musica, dei suoni a diventare linguaggio. Non si vuol certo dire che la musica prodotta fino ad oggi e quella del futuro fosse inscritta nel patrimonio genetico dell'umanità ma semplicemente che la Storia della cultura umana, ciò che è corso tra quel che accadde 4 milioni di anni fa e il nostro tempo, è compresa tanto in questo montaggio audiovisivo quanto in quel taglio di montaggio, che seguirà poco dopo, che chiede alla nostra immaginazione di vedere l'osso lanciato in aria dal primate e l'astronave spaziale come prodotti della stessa tecnica (seppure perfezionata). Da questo punto di vista il sonoro e il visivo in questa sequenza collaborano parallelamente a significare qualcosa di paradossale: come soglie introducono lo spettatore nel film affinché col suo giudizio avvalli la bellezza di un'immagine, di una composizione musicale, quindi qualcosa di estremamente determinato e contingente per fondare ciò che è richiesto alla scimmia per diventare uomo, cioè la capacità estetica di anticipare attraverso il sentire una sensatezza in genere delle cose, dell'esistente. Passiamo ora ad esaminare le scene finali del film dove si concluderanno le nostre considerazioni.
David, in prossimità di Giove, quindi alla conclusione della suo viaggio sulle tracce del mistero rappresentato dal monolito nero, approda con la sua navicella in un luogo veramente inatteso: all'interno di un'abitazione illuminata artificialmente e ricca di manufatti umani: statue, quadri, arredamenti… In luogo di uno spazio originario che rappresentasse la provenienza dell'uomo ritroviamo un ambiente completamente artificiale e costruito da un'immaginazione, si direbbe, provata: un'opera architettonica tra il post-moderno e il neoclassico, con le sue decorazioni e opere d'arte d'arredo. Non è forse azzardato dire che in questa sequenza, preceduta da un viaggio tra colori, esplosioni informi e fasci di luce Kubrick metta in scena proprio l'immaginazione come il luogo più originario dell'uomo (e ciò ci riporterebbe a Kant). In ogni caso a questo punto, dall'interno della sua navicella posteggiata in salotto, David vede, ma prima ne sente i passi, un uomo in tuta rossa in piedi in mezzo alla stanza: se stesso. Non appena la macchina da presa va ad occupare il controcampo dell'uomo in piedi, così che ora dovremmo vedere David dentro la sua navicella, non vediamo proprio niente. La stessa cosa accade quando David, sentendo dei rumori di stoviglie volge lo sguardo al tavolo dove, seduto di schiena mentre mangia, lo riconosciamo invecchiato nell'intento di prendere "lo sguardo": si volta ma non c'è nessuno ad osservarlo. Rovescia un bicchiere e il suono di tale rottura (un atto mancato) rivolge la sua attenzione ad un vecchio morente disteso nel letto che, non restituendogli neppure lo sguardo, addita verso il monolito ai piedi del letto, nel centro della stanza: compare sul letto un feto che un taglio di montaggio ci restituirà luminoso sul nero dello spazio. La sequenza che abbiamo voluto descrivere, costruita su una serie di quasi-soggettive che ci fanno sentire vicinissimi a David, a condividerne il destino, è veramente il punto di approdo di ciò che abbiamo sostenuto in tutte queste nostre considerazioni: innanzi tutto lo sdoppiamento del soggetto come sua condizione costitutiva si impone prepotentemente nelle modalità del guardare e dell'esser guardati. Kubrik mette in scena proprio il confine tra queste due modalità sottraendo di volta in volta al guardato la fonte del guardare come istanza che lo aveva istituito in quanto tale: il guardato vorrebbe ora riscattarsi da questa passività e restituire lo sguardo, attivamente, a chi glielo aveva donato, ma è impossibilitato a farlo. Ciò che può fare è istituire a sua volta un altro guardato che non potrà rimandargli il suo sguardo perché guardante e guardato hanno, possiamo dire, una diversa direzionalità nell'uomo. C'è di più: Kubrick ci fa vedere che a questo sdoppiamento appartiene in modo essenziale il compito di dover dar forma al tempo umano se è vero che in questo gioco di sguardi si riassume la vita intera di David (ma anche la nostra), dalla maturità alla morte. Quel poter guardare solo in un senso, il futuro, è allo stesso tempo un poter progettare la propria vita attivamente ma sempre e solo a partire da un senso determinato che già ci tiene - cioè da quello sguardo dal quale passivamente siamo venuti e che, avendo già tracciato la nostra figura, i nostri contorni nel mondo, ci dispone a dare un senso a ciò che guarderemo. Il sonoro in tutto ciò ha una parte minima (qualche rumore) ma una funzione fondamentale: viene subìto come una passività da uno sguardo attivo che si fa dirigere da esso come sua unica garanzia di senso. Lo sguardo così rivolto sembra dare vera e propria esistenza a ciò che guarda: David, in assenza di questi suoni ci apparirebbe come un Dio, un intelletto intuente (direbbe Kant) che non ha bisogno di accogliere passivamente, percependole, le cose che gli si offrono perché può produrle da sé. Nel nostro caso invece lo sguardo di David è sì proiettivo (forse e meglio dire progettante) ma la realtà di ciò che così è progettato è anticipata e resa sensata dai suoni, da una passività indifferente all'onnipotenza dello sguardo: fino a quando su tale proiezione non andrà ad insediarsi la camera da presa, che così si predispone ad accogliere altri suoni che ne ri-orientino lo sguardo, la realtà di questo veduto non è altro che quella dell'immaginazione. Ciò che allora viene messo in scena nella rappresentazione di quel feto non è altri forse che lo spettatore, l'uomo nuovo, chiamato a far coincidere, in una soggettiva fuori della rappresentazione, i propri occhi con quelli già esperti ma innocenti del feto e a fondare, nel mondo della vita, quella sua umanità con la quale da sempre ha a che fare e che non è per nulla solo ciò che già gli spetta per natura. L'unico modo, sembra dirci Kubrick, per recuperare quella passività come ciò che di più proprio abbiamo - e senza della quale il nostro decidere e progettare sarebbe l'insensato e delirante programmare di una macchina - non è guardare indietro verso l'origine ma avanti verso la morte (ciò che Heidegger chiamava il proprio essere-per-la-morte). Così la soglia iniziale del film, quello schermo nero e dissonante che lo fa iniziare prima del suo inizio, nel mondo della vita, sembra indicarci la macchina, la tecnica come originariamente, e non in virtù di una sua decisione, avversa all'uomo, già da prima e indipendentemente dall'uso che questo vorrà farne: rispondendo ad un giornalista che lo interroga circa la presunta emotività umana del computer David risponde che nessuno può attribuirgliela o negargliela con certezza, ma è come se ce l'avesse, ed è su tale come se che David regolerà, sensatamente, le sue decisioni.
Terminiamo dicendo che questo film, anzi quest'opera audiovisiva, è da considerarsi senz'altro come uno dei miti più belli e complessi della storia dell'uomo e come tale attira il nostro interesse non tanto per le verità scientifiche o mistiche di cui si fa il promotore quanto per la densità dei dispositivi significanti che mette in gioco e che non smetterà mai di stimolare il pensiero.


Alessandro MAZZANTI

17 - 06 - 01