
Schermo nero e musica dissonante. Così ha inizio ancor prima dei
titoli di testa la versione restaurata in originale del film del 1968
di S. Kubrick. La stessa scena ci verrà riproposta tra due sequenze
molto importanti: quella in cui il computer di bordo Hal legge labiale
le intenzioni mute dei due astronauti decisi ad eliminarlo e la sequenza
dove Mark, uno dei due, troverà una morte silenziosa nello spazio
cadendo vittima proprio di una "risoluzione" del computer che
supponiamo maturata in quell'intervallo di schermo nero e sonoro. Nascono
subito alcune domande: quando - dato che l'inquadratura per lo spettatore
non è nuova - viene propriamente presa una tale "decisione"
da Hal? Cosa significa che ciò venga ascritto come possibilità
ad una macchina, sia pure intelligente? Senza affrontarle subito cerchiamo
di portarvi dei chiarimenti partendo da ciò che già si è
imposto nelle sequenze sopra descritte e che, attraverso esempi più
puntuali, emergerà come il vero protagonista dell'intero film:
il rapporto tra suono ed immagine. E lo diciamo non tanto per la maestria
con cui Kubrick ci fa vedere "l'alba dell'uomo" attraverso la
musica del "Così parlò Zarathustra" o le navi
spaziali che danzano sospese sulle note del "Danubio blu" di
J. Strauss quanto per la più forte e autonoma funzione narrativa
che il "sonoro" assume in riferimento al "visivo".
Il gioco proposto tra i due registri significanti è variamente
articolato andando dalla divergenza contrastante e spiazzante al parallelismo
(ma forse mai fino alla sovrapposizione): per dare subito un esempio di
ciò che intendiamo analizziamo, rispettivamente, la sequenza in
cui prima David e poi Mark escono dalla navicella per sostituire un elemento
all'astronave madre e quella in cui i primati, progenitori dell'uomo,
si ritrovano ai piedi del monolito nero.
Nel primo caso il respiro dell'uomo all'interno della sua tuta spaziale
ci viene proposto in un continuum sonoro totalmente indifferente a quell'alternanza
di primi, medi piani o panoramiche dell'astronauta (o della sua navicella)
che, rifiutando qualsiasi soggettiva, ce lo restituisce perennemente "in
campo". Ma fin qui niente di conturbante se è vero che il
cinema ci ha abituati da tempo a non esigere necessariamente una soggettiva
per renderci comprensibile l'udire ciò che solo il personaggio,
dal suo posto, può o immagina: insomma, lo spettatore (il lettore)
ha sempre avuto un sapere aggiunto e dei vantaggi sul personaggio e questo
non sarebbe che uno di questi. Ma lo spiazzamento nasce, e la convenzione
di tale linguaggio crolla, quando ci accorgiamo che i due registri stanno
narrando diversamente, quando cioè "visivamente" la navicella
prima e l'astronauta poi escono nello spazio aperto e i loro gesti lenti
e trattenuti si stagliano sulla nera profondità del vuoto ma poi,
ciò che viene arrestato a livello visivo, cioè questo gioco
a scatole cinesi, viene "sonoramente" ripreso e continuato:
è proprio il corpo dell'uomo a venire fuori dal suo scafandro e
ad occupare, ma solo con il respiro, la nostra posizione di spettatori
dalla quale lo vediamo muoversi di fronte a noi. A questo punto è
avvenuto uno sdoppiamento: l'uomo è rappresentato contemporaneamente
in due luoghi diversi: uno occupato dal visivo l'altro dal sonoro. Come
è accaduto? E' il significato dell'immagine, cioè quell'uomo
che via via si spoglia delle sue protezioni per ritrovarsi sempre più
esposto e in balia del vuoto, che arriva ad attribuire al sonoro, che
pure resta materialmente invariato, uno statuto narrativo diverso: da
quasi-extradiegetico che era, cioè parte sì dell'evento
narrato (il respiro è dell'astronauta) ma destinato liberamente
e per convenzione dall'autore allo spettatore fuori da qualsiasi soggettiva
che lo supporti, diventa quasi-intradiegetico, cioè pur non incarnandosi
in una soggettiva sempre possibile dell'astronauta "in campo"
esige da ogni spettatore che lo assuma sul suo sguardo in quanto soggettiva
dell'astronauta "fuori campo". Viene così sottratto allo
spettatore il suo luogo privilegiato di puro osservatore e di unico depositario
del suono affinché sia trascinato dal personaggio nell'immagine
filmica o, che è lo stesso, ri-comprenda l'immagine visiva in un'immagine
sonora di cui lui stesso fa parte. L'istanza riflessiva o sdoppiante che
istituisce ora il personaggio del film non solo come un "soggetto
agente o vedente" (colui che risistema l'antenna radio dell'astronave)
ma come "soggetto riflettente" - perché visto, riflesso
dallo spettatore e da se stesso a partire da un luogo altro che non coincide
con quello del suo agire e ritrovarsi determinato - è ciò
che propriamente porta lo spettatore a fare emotivamente esperienza dell'angoscia
di ritrovarsi sospesi nel vuoto, nella contingenza di una situazione estrema
che può annullarlo definitivamente. Il rapporto tra sonoro e visivo
in questa sequenza arriva a significare dunque una condizione umana nella
quale ci scopriamo sdoppiati e perciò riflettenti su noi stessi
e sulla nostra condizione: Merlau-Ponty a questo riguardo parla dell'uomo
come di una scissione nel "cuore stesso del visibile" perché
è capace di riflessione solo in quanto vedente e al tempo stesso
parte del visibile, senza che quel "al tempo stesso" significhi
piena reciprocità o sovrapponibilità dei due versanti: la
riflessione non potrà mai recuperare trasparentemente ciò
da cui ha avuto origine, il vedente non si vedrà mai pienamente
come visto, il sonoro e il visivo, deputati a rappresentare questo gioco
pieno di zone d'ombra, di scarti, non potranno non trovarsi segnati da
una differenza di luogo che li alimenta a vicenda. Riprenderemo in seguito
la questione premendoci al momento far notare come Kubrick sfrutti il
meccanismo dell'enunciazione visiva e sonora per introdurre il tema dello
sdoppiamento che vedremo svolgersi palesemente nelle scene finali del
film. Non da ultimo osserviamo che l'istanza riflessiva qui fatta scattare
dal sonoro è pensata come talmente originaria e costitutiva dell'uomo
che quando Hal farà morire Mark "perdendolo" nello spazio,
la navicella agli ordini del computer rivolgerà le sue chele meccaniche
e trancianti verso lo spettatore, cioè verso il luogo occupato
dal sonoro, così che da quel momento in poi il silenzio sarà
il segno che denota, in collaborazione col visivo, la mancanza di ossigeno
ma che significa, indipendentemente da questo, il venir meno dell'interno
sdoppiamento dell'uomo e quindi nel suo complesso la morte. Passiamo ora
a descrivere la seconda sequenza in cui, come abbiamo ipotizzato, dovremmo
ritrovare un "parallelismo" e non uno "scarto" come
in precedenza, tra l'attività dei due registri significanti.
I primati grazie al monolito nero scoprono, ma forse inventano, la tecnica
e il linguaggio o, è meglio dire, il mezzo. Heidegger pensava il
"mezzo" come caratterizzato dalla sua utilizzabilità,
dal suo essere genericamente e indeterminatamente utilizzabile ma di volta
in volta in un uso determinato (solo da questo punto di vista "applicativo
o di specificazione" avanziamo l'analogia tra oggetti e linguaggio
- detto anche "medium", che media - in quanto entrambi "mezzi").
Dunque ciò che è richiesto da questa pratica applicativa
è almeno una capacità riflessiva di distanziamento da fini
immediati e contingenti e una progettualità che permetta ad esempio
di utilizzare una parola anche in assenza del suo referente oppure un
pezzo di legno non tanto per avvicinarci questo frutto che non arriviamo
con le mani, quanto per costruire, poniamo, una scala da poter utilizzare
in ogni contesto simile. Come altri oggetti un osso (una parola) ha nelle
mani di un uomo una predisposizione generica a servire (significare) che
si specificherà in un contesto dato: per sbriciolare altri ossi
e ricavarne schegge o per abbattere selvaggina o un altro vivente che
gli contendesse uno stagno d'acqua. Tale capacità la supponiamo
dunque derivata dal monolito nero, forse per magia, perché è
ciò che vediamo accadere nei primati di 2001 dopo l'incontro con
esso. Ma cosa capita all'apice della sequenza che narra di questo incontro?
Kubrick ci fa vedere, in una soggettiva verso l'alto di un primate ai
piedi della pietra nera, l'allineamento in asse di sole, luna e monolito
in un'atmosfera di suoni già umani (cioè vocali, in luogo
dei versi di grilli, cicale e animali feroci) che accompagna da subito
la comparsa della pietra nera: che un tale suono sia intra- o extradiegetico,
cioè udito anche dalle scimmie o meno, resta ancora del tutto indeciso.
All'origine dell'umanità, sembra volerci suggerire Kubrick, sta
dunque una "fattualità", un evento che si lascia cogliere
dai progenitori dell'uomo come un'armonia visiva, un ordine formale soltanto
contingente - lo stare lì del monolito, delle sfere celesti e delle
scimmie - e che Kubrick non fa che rimettere in scena sotto gli occhi
dello spettatore (in una soggettiva) per chiedergli di convenire su tale
misura soltanto fattuale dell'esistente. Ricordiamo che Kant vedeva una
"finalità della natura a scopi, senza scopo [determinato]"
in ciò che nella natura o nell'arte l'uomo si dispone a chiamare
"bello" sulla base di un giudizio che colga esteticamente la
finalità o la sensatezza in genere di una rappresentazione (cioè
appunto la sua bellezza): un giudizio fondato su di un "sentire in
comune" degli uomini che pure non è già in loro possesso
ma perseguibile per fondare una comunità futura di giudicanti perché
un tale giudizio esige l'accordo di ognuno anche se soltanto e proprio
sulla base di un ordine, una misura esibiti da quest'immagine contingente
che ci sta di fronte, senza che un qualsiasi concetto, come potrebbe essere
qui quello di allineamento, possa servirci come regola o fondamento "di
bellezza". Per Kant insomma il bello è qualche cosa che accade
e che accadendo ci rende consapevoli del fatto che per coglierlo stavamo
già anticipando un senso, seppure indeterminato, di cui non abbiamo
alcuna regola, alcun parametro che non sia quello fornitoci dalla conformazione
visiva dell'esistente che abbiamo di fronte: proprio ciò che può
accadere ai primati e allo spettatore ma per il quale non abbiamo alcuna
garanzia. Chiamiamo anche lo spettatore a condividere l'esperienza del
primate perché quest'immagine, che rappresenta la vera soglia visiva
di passaggio dalla scimmia all'umano - il primate infatti se ne sovviene
proprio nell'istante di esitazione che precede la percussione dell'osso
come di un "mezzo" e in cui inizia a risuonare il "Così
parlò Zarathustra" - è una delle poche soggettive del
film. Inoltre una soglia simile, anche se sonora, era già stata
varcata almeno dallo spettatore nell'udire quelle voci indistinte che,
a meno di non interpretarle come emissione sonora dello stesso monolito
(il che è sempre possibile in senso mistico o ultraterreno) o come
immaginate dagli stessi primati (ma allora l'umanità sarebbe già
in loro e il film non registrerebbe che delle coincidenze), sono già
umane in quanto indirizzate innanzi tutto a lui affinché diventi
un quasi-personaggio del film. Kubrick insomma, per sfuggire ad una spiegazione
causale della nascita dell'uomo (spiegazione che dovrebbe o retrocedere
all'infinito o appellarsi ad un credo, seppure in altre forme di vita),
introduce una comprensione circolare dell'evento chiedendo allo spettatore
di apportare ciò che di già umano è richiesto alla
scimmia per diventare nostro progenitore. Sembra quasi che alla comunità
futura degli spettatori spetterà sempre il dovere di fondare, convenendo
sulla bellezza dell'immagine ai piedi del monolito, quell'umanità
che la scimmia da sola non poteva fondare mancandole ciò che vi
è di più proprio nell'uomo: quella universalità della
capacità estetica di cui sopra. Il paradosso è evidente
ma non di meno produttivo, cioè ricomposto in una struttura significante:
è attraverso il gioco tra sonoro e visivo che un tale paradosso
diventa produttivo: il "Così parlò Zarathustra"
che udiamo in questa sequenza non è più quello extradiegetico
dei titoli di testa ma è quello quasi-intradiegetico (come lo sono
quelle voci umane) che il primate, nell'immaginazione ormai coinvolta
dello spettatore, sembra anticipare nella sua possibilità 4 milioni
di anni prima della sua realizzazione effettiva: è stata anticipata
una predisposizione dei rumori a diventare musica, dei suoni a diventare
linguaggio. Non si vuol certo dire che la musica prodotta fino ad oggi
e quella del futuro fosse inscritta nel patrimonio genetico dell'umanità
ma semplicemente che la Storia della cultura umana, ciò che è
corso tra quel che accadde 4 milioni di anni fa e il nostro tempo, è
compresa tanto in questo montaggio audiovisivo quanto in quel taglio di
montaggio, che seguirà poco dopo, che chiede alla nostra immaginazione
di vedere l'osso lanciato in aria dal primate e l'astronave spaziale come
prodotti della stessa tecnica (seppure perfezionata). Da questo punto
di vista il sonoro e il visivo in questa sequenza collaborano parallelamente
a significare qualcosa di paradossale: come soglie introducono lo spettatore
nel film affinché col suo giudizio avvalli la bellezza di un'immagine,
di una composizione musicale, quindi qualcosa di estremamente determinato
e contingente per fondare ciò che è richiesto alla scimmia
per diventare uomo, cioè la capacità estetica di anticipare
attraverso il sentire una sensatezza in genere delle cose, dell'esistente.
Passiamo ora ad esaminare le scene finali del film dove si concluderanno
le nostre considerazioni.
David, in prossimità di Giove, quindi alla conclusione della suo
viaggio sulle tracce del mistero rappresentato dal monolito nero, approda
con la sua navicella in un luogo veramente inatteso: all'interno di un'abitazione
illuminata artificialmente e ricca di manufatti umani: statue, quadri,
arredamenti… In luogo di uno spazio originario che rappresentasse la provenienza
dell'uomo ritroviamo un ambiente completamente artificiale e costruito
da un'immaginazione, si direbbe, provata: un'opera architettonica tra
il post-moderno e il neoclassico, con le sue decorazioni e opere d'arte
d'arredo. Non è forse azzardato dire che in questa sequenza, preceduta
da un viaggio tra colori, esplosioni informi e fasci di luce Kubrick metta
in scena proprio l'immaginazione come il luogo più originario dell'uomo
(e ciò ci riporterebbe a Kant). In ogni caso a questo punto, dall'interno
della sua navicella posteggiata in salotto, David vede, ma prima ne sente
i passi, un uomo in tuta rossa in piedi in mezzo alla stanza: se stesso.
Non appena la macchina da presa va ad occupare il controcampo dell'uomo
in piedi, così che ora dovremmo vedere David dentro la sua navicella,
non vediamo proprio niente. La stessa cosa accade quando David, sentendo
dei rumori di stoviglie volge lo sguardo al tavolo dove, seduto di schiena
mentre mangia, lo riconosciamo invecchiato nell'intento di prendere "lo
sguardo": si volta ma non c'è nessuno ad osservarlo. Rovescia
un bicchiere e il suono di tale rottura (un atto mancato) rivolge la sua
attenzione ad un vecchio morente disteso nel letto che, non restituendogli
neppure lo sguardo, addita verso il monolito ai piedi del letto, nel centro
della stanza: compare sul letto un feto che un taglio di montaggio ci
restituirà luminoso sul nero dello spazio. La sequenza che abbiamo
voluto descrivere, costruita su una serie di quasi-soggettive che ci fanno
sentire vicinissimi a David, a condividerne il destino, è veramente
il punto di approdo di ciò che abbiamo sostenuto in tutte queste
nostre considerazioni: innanzi tutto lo sdoppiamento del soggetto come
sua condizione costitutiva si impone prepotentemente nelle modalità
del guardare e dell'esser guardati. Kubrik mette in scena proprio il confine
tra queste due modalità sottraendo di volta in volta al guardato
la fonte del guardare come istanza che lo aveva istituito in quanto tale:
il guardato vorrebbe ora riscattarsi da questa passività e restituire
lo sguardo, attivamente, a chi glielo aveva donato, ma è impossibilitato
a farlo. Ciò che può fare è istituire a sua volta
un altro guardato che non potrà rimandargli il suo sguardo perché
guardante e guardato hanno, possiamo dire, una diversa direzionalità
nell'uomo. C'è di più: Kubrick ci fa vedere che a questo
sdoppiamento appartiene in modo essenziale il compito di dover dar forma
al tempo umano se è vero che in questo gioco di sguardi si riassume
la vita intera di David (ma anche la nostra), dalla maturità alla
morte. Quel poter guardare solo in un senso, il futuro, è allo
stesso tempo un poter progettare la propria vita attivamente ma sempre
e solo a partire da un senso determinato che già ci tiene - cioè
da quello sguardo dal quale passivamente siamo venuti e che, avendo già
tracciato la nostra figura, i nostri contorni nel mondo, ci dispone a
dare un senso a ciò che guarderemo. Il sonoro in tutto ciò
ha una parte minima (qualche rumore) ma una funzione fondamentale: viene
subìto come una passività da uno sguardo attivo che si fa
dirigere da esso come sua unica garanzia di senso. Lo sguardo così
rivolto sembra dare vera e propria esistenza a ciò che guarda:
David, in assenza di questi suoni ci apparirebbe come un Dio, un intelletto
intuente (direbbe Kant) che non ha bisogno di accogliere passivamente,
percependole, le cose che gli si offrono perché può produrle
da sé. Nel nostro caso invece lo sguardo di David è sì
proiettivo (forse e meglio dire progettante) ma la realtà di ciò
che così è progettato è anticipata e resa sensata
dai suoni, da una passività indifferente all'onnipotenza dello
sguardo: fino a quando su tale proiezione non andrà ad insediarsi
la camera da presa, che così si predispone ad accogliere altri
suoni che ne ri-orientino lo sguardo, la realtà di questo veduto
non è altro che quella dell'immaginazione. Ciò che allora
viene messo in scena nella rappresentazione di quel feto non è
altri forse che lo spettatore, l'uomo nuovo, chiamato a far coincidere,
in una soggettiva fuori della rappresentazione, i propri occhi con quelli
già esperti ma innocenti del feto e a fondare, nel mondo della
vita, quella sua umanità con la quale da sempre ha a che fare e
che non è per nulla solo ciò che già gli spetta per
natura. L'unico modo, sembra dirci Kubrick, per recuperare quella passività
come ciò che di più proprio abbiamo - e senza della quale
il nostro decidere e progettare sarebbe l'insensato e delirante programmare
di una macchina - non è guardare indietro verso l'origine ma avanti
verso la morte (ciò che Heidegger chiamava il proprio essere-per-la-morte).
Così la soglia iniziale del film, quello schermo nero e dissonante
che lo fa iniziare prima del suo inizio, nel mondo della vita, sembra
indicarci la macchina, la tecnica come originariamente, e non in virtù
di una sua decisione, avversa all'uomo, già da prima e indipendentemente
dall'uso che questo vorrà farne: rispondendo ad un giornalista
che lo interroga circa la presunta emotività umana del computer
David risponde che nessuno può attribuirgliela o negargliela con
certezza, ma è come se ce l'avesse, ed è su tale come se
che David regolerà, sensatamente, le sue decisioni.
Terminiamo dicendo che questo film, anzi quest'opera audiovisiva, è
da considerarsi senz'altro come uno dei miti più belli e complessi
della storia dell'uomo e come tale attira il nostro interesse non tanto
per le verità scientifiche o mistiche di cui si fa il promotore
quanto per la densità dei dispositivi significanti che mette in
gioco e che non smetterà mai di stimolare il pensiero.
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