
Mille corpi "ibernati" come icone pagane in un rito collettivo: l'augurio
di poter celebrare la periodicità dell'arte che rinasce. Avendo come sola
banda sonora il metronomico respiro di David Bowman lanciato nell'attraversamento
di ere, dimensioni, versioni alternative della logica, abbiamo officiato
insieme davanti al "monolito" del cinema moderno. Un oggetto filmico levigato
che solo pone interrogativi, totalmente aperto e radicalmente chiuso agli
assalti dell'interpretazione, compasso di misurazione di ogni altra pretesa
innovazione.
Kubrick aveva prodotto la "metafora" di se stesso [2001/monolito/Kubrick]
lasciandola in consegna alle coordinate spazio-temporali di un "infinito"
[non il 1968, non il 2001, ma il "sempre" o il "mai", l'"ovunque" o il
"nowhere"] più adatti ad accoglierla. Quasi che, al posto della "critica
cinematografica", potesse coglierne i nessi solo una entità dotata di
parametri diversi, assoluti, superiori.
2001: ODISSEA NELLO SPAZIO non è un film. Non abbiamo "visto" una pellicola,
questa mattina al Berlinale Palast. Il film ci ha visti. Siamo stati misurati
da qualcosa che ci osservava, passava al vaglio la nostra capacità di
stare "nel" tempo, accordandoci, sintonizzandoci su frequenze di futuro
che sole definiscono la matrice dell'arte, la matrice del cinema [KINEMATRIX,
non a caso]: anticipare restando, prevedere rivedendo, scoprire ricordando.
Dopo una rincorsa di trentatré anni, la cultura dell'immagine [ma non
solo] non ha ancora "raggiunto" 2001, e lo stesso dicasi per "il" 2001.
Guardandoci, il film non ha potuto trarre conclusioni appena consolanti.
Siamo ancora all'alba dell'uomo creativo e un seppur grandissimo festival
come la Berlinale non è ancora la navicella Discovery, se non per l'architettura
immaginifica dei suoi spazi.
Voto: 30/30 e lode
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