DICIASSETTE ANNI
di Zhang Yuan

L'ottavo lavoro ufficiale del trentasettenne Zhang è, in primo luogo e in apertura, il racconto, piuttosto comune, di una crisi familiare. Una vicenda - e lo vedremo - profondamente influenzata dal presente di una Cina in divenire ma, per precisa scelta registica, eretta a partire da alcuni nuclei tematici inerenti al patrimonio delle più normali esperienze di vita. I diciassette anni del titolo sono all'incirca l'età di due sorelle che non potrebbero essere più antitetiche: Tao Lan e Yu Xiaoquin. Una ama la scuola anzitutto per la presenza dei ragazzi con cui trascorrere il tempo libero; la seconda, viceversa, dedica perfino le sue sere ai libri ed allo studio. Oltre a ciò, le ragazze non sono sorelle naturali, dal momento che i rispettivi genitori, entrambi vedovi, hanno scelto di vivere assieme, portandole così a condividere casa e camera da letto. Tra Yu Zheng Gao e Tao Airong, tutto ciò - nonostante le primissime inquadrature li mostrino sereni, in sella all'unica bicicletta di famiglia - è tuttavia alla base di continui litigi: il padre della ragazza più diligente ne esalta di continuo le doti, stigmatizzando al contempo la presunta incostanza della figliastra; Tao Airong non può che replicare incolpando Yu Xiaoquin di scarso impegno nelle concrete faccende casalinghe. È cosa nota che marcate preferenze da parte dei genitori siano alla base di accese rivalità tra fratelli; se l'età poi è quella del titolo, allorché la personalità inizia a formarsi con più decisione e si fanno strada le prime scelte impegnative, la cosa può assumere anche un profilo assai critico. Ed entrambe le ragazze - nell'unico dialogo sereno di cui il regista le ha volute protagoniste - si confidano reciprocamente il desiderio di lasciare, anche se per differenti motivi, quella casa e la vita che essa rappresenta. Ma l'intesa non va oltre. Astiosa verso la madre acquisita - una sequenza la ritrae mentre una notte, con disgusto, ascolta i genitori mentre fanno l'amore - o intenzionata a liberarsi dell'indesiderata compagna di stanza (diciassette anni sono oltretutto un'età decisamente delicata per continuare a condividere la camera), Yu Xiaoquin ruba cinque - miseri - yuan: trova poi un espediente per fare incolpare Tao Lan, fomentando così un clima ostile ad entrambe le donne. Conscia del credito maggiore di cui al confronto godrebbe la propria versione dei fatti - è lei stessa a vantarsene - non ha alcun tipo di remora nel deridere, boriosa, la sorella. Impotente, Tao Lan cede all'istinto e la colpisce con un bastone, uccidendola involontariamente. Condannata a diciassette anni di carcere, tornerà a casa in permesso premio, trovando una famiglia ancora distrutta ma in fondo disposta, nonostante le difficoltà, a riaccoglierla.
Il ricorso all'analisi sinottica ci è servita per isolare, almeno in parte, alcune delle maglie grazie alle quali il racconto si presenta agibile anche per un pubblico non forzatamente ricercato. Se tuttavia l'operazione di Zhang Yuan si esaurisse qui, Müller avrebbe magari detto il vero, ma forse non sarebbero emersi gli incentivi per un'ulteriore analisi. In cosa, allora, DICIASSETTE ANNI si eleva rispetto alla piattezza, ad esempio, di un qualunque sceneggiato televisivo, in cui la presunta adesione ai drammi del reale è alla base del pathos? Dove va cercato l'"autore" in un film, la cui la mera vicenda chiama la commozione con le armi - piuttosto ordinarie - del disastro familiare?
Sulle pagine web che l'Istituto Luce ha dedicato alla pellicola sono apparse alcune "note di regia" in cui si legge: "con DICIASSETTE ANNI spero di essere riuscito a raccontare la mia storia alla gente nel modo più diretto" [1]. E infatti - proprio come nei film-emblema del Neorealismo italiano (il parallelo qui è anzitutto con LADRI DI BICICLETTE, opera senz'altro in grado di rivolgersi anch'essa al grande pubblico) - ogni cosa dà l'impressione di accadere come se la m.d.p. fosse solo una testimone e non la causa prima degli eventi: essa è (quasi sempre) sistemata in funzione di una ripresa frontale, anche nella volontà di evitare che ampie panoramiche o carrellate estranee al puro movimento dei protagonisti potessero distrarre lo spettatore dal nitido svolgersi dell'azione. Vi sono poi l'evidente rifiuto di avvicinare gli attori oltre il limite fisico del mezzo primo piano e l'attenzione ad evitare spettacolarizzazioni dell'evento drammatico (la scena dell'omicidio è quanto di più asettico si possa incontrare al cinema: priva di preparazione e di climax, anche sonoro). Una strada, in sintesi, scelta da Zhang per rendere la propria presenza pressoché invisibile e raccontare, pur nell'ovvia finzione filmica, esclusivamente i fatti; restituire piuttosto che costruire gli avvenimenti. Così facendo, egli ha conformato i connotati di DICIASSETTE ANNI a quelli del documentario, ovvero di una forma già da lui frequentata in passato [2] e il cui taglio - come riconosciuto dallo stesso - mantiene da sempre un ruolo guida per il suo lavoro di cineasta: "mi sono cimentato con diversi linguaggi creativi, eppure il mio solo ed unico desiderio è sempre stato quello di documentare la società così com'è" [3]. Ora, essendo comunque DICIASSETTE ANNI opera di fiction, la realtà di cui l'autore avrà inteso portare testimonianza interessa l'essenza di un singolo dramma (organico alla diegesi), le cui ragioni hanno tuttavia origine in alcune pulsioni universali. E sono proprio queste che Zhang ha inteso "documentare", come ci pare emergere dall'analisi di un lieve ma significativo scarto rispetto ai succitati intenti da cinema-verità. Il secondo blocco del film - come già accennavamo - è centrato attorno all'episodio del furto e si apre con il dettaglio delle banconote incustodite, qui isolate ad anticiparne il ruolo di casus belli. In realtà, ciò che interessa realmente a Yu Xiaoquin è sconvolgere il già precario equilibrio familiare per guadagnarsi un ruolo di netto privilegio. A guidarla è in primo luogo l'egoismo: il fatto - ciò che accade - è la lite che ne nasce tra i genitori, ma la m.d.p. se ne disinteressa concentrandosi viceversa sul volto della ragazza: ne studia le reazioni, ne isola implicitamente le ragioni, relegando al fuori campo le voci degli adulti. Sullo schermo coesistono allora origine e conseguenza dell'evento che si rivelerà decisivo per la vita di almeno quattro persone, del quale tuttavia al regista importa evidentemente la profonda, primigenia, ragione umana. All'origine dell'alterco non sono infatti - nonostante l'evidente povertà della famiglia - i cinque yuan, poiché nessuno fa mai cenno al danno economico recato dal furto. In gioco è il prestigio delle ragazze, l'orgoglio dei rispettivi genitori e di Yu Zheng Gao, il padre, in particolare: difendere la - presunta - onestà della figlia equivale a proteggere se stesso e il proprio bisogno di egemonia all'interno della famiglia. Perché fondamentalmente DICIASSETTE ANNI è una tragedia dell'orgoglio, come appare chiaro con l'approssimarsi dei titoli di coda. Vediamo. Nemmeno uno dei coniugi è andato ad accogliere Tao Lan al ritorno dalla prigione, nonostante i molti anni trascorsi: la responsabilità non è - come appare in un primo tempo - della mancata ricezione dell'avviso, quanto nell'occultamento dello stesso da parte di Tao Airong, ancora insicura sulle possibili reazioni del marito. È per la medesima ragione che, all'arrivo della figlia, si dimostra piuttosto fredda, nonostante una necessità d'affetti che di lì a poco si manifesterà completamente. Ma senza quel gesto, la fierezza dell'uomo avrebbe facilmente prevalso ancora una volta, portandolo - per sua stessa ammissione - a non farsi trovare in casa: solo a cose fatte Yu Zheng Gao dirà "adesso posso permettermi di restare". Tao Lan, per l'omicidio della sorella, ha subito la punizione della legge; non esistono invece condanne ufficiali per la colpa del padre, sebbene esista una responsabilità e - come ci pare di intuire dalle sue parole - forse ne sia egli stesso consapevole. Nonostante le continue arringhe a difesa della figlia, una volta rinvenuto il denaro, l'uomo insiste affinché la questione si concluda lì, senza ulteriori spiegazioni e l'individuazione certa del colpevole. Nel prefinale, quando Tao Lan, pur di riscoprire l'armonia familiare, ammette quella colpa non sua, Yu Zheng Gao la zittisce con decisione. Ci sembra che così facendo Zhang abbia messo in bocca al suo protagonista una confessione, senza tuttavia fargliela pronunciare: eventualità che avrebbe di fatto reso di scarsa coerenza e peso il tratteggio di un carattere troppo chiuso ed orgoglioso (ma anche vile) per ammettere apertamente un errore proprio o della figlia. Egli presumibilmente conosceva la verità, ma ha taciuto. Allora la sola pena opportuna può scontarsi nel suo intimo, all'insaputa di tutti: da qui la decisione di non affrontare l'incontro con la ragazza e continuare a soffrire in solitudine.
Nonostante la centralità del personaggio di Yu Zheng Gao, è chiaro come DICIASSETTE ANNI sia, in primo luogo, un film di donne. Tanto è vero che, oltre a Tao Airong e alle due sorelle, il regista ha introdotto una quarta, decisiva, figura femminile, quella del "capitano". Rimasta fondamentalmente una bambina, una volta rilasciata, Tao Lan non sa nemmeno come muoversi: trova però l'inatteso e generosissimo aiuto di una delle ufficiali in servizio presso il carcere: Chen Jie, che lei si ostina a chiamare appunto "capitano". Nonostante i ruoli antitetici, tra le due ragazze emerge una certa sintonia, messa in rilievo già in sede di sceneggiatura dal loro essere quasi coetanee. Zhang ha inoltre fatto sì che ciò emergesse anche dal punto di vista dell'aspetto fisico: quella divisa ufficiale, grande almeno una taglia in più del necessario, veste il capitano in modo leggermente goffo, stemperando così - senza però spingersi fino alla caricatura - l'autorevolezza che i gradi sono lì a garantirle. Chen Jie dà ordini tassativi, eppure poco dopo sceglie di condividere un piatto di ravioli, confidando all'inattesa compagna la nostalgia per il distacco da casa e dall'amata sorellina. È questo suo essere al contempo rappresentante del rigore statale e semplice ragazza non ancora trentenne a farne il compagno ideale per un migliore ritorno di Tao Lan a casa. Il capitano conosce la vita e le leggi del carcere, ma è altresì consapevole, per esperienza personale, del fatto che i diciassette anni lasciativi dalla condannata sono - con le parole che usa in presenza dei genitori - "i più importanti nella vita di una giovane donna, i migliori".
L'evidenza della smodata sensibilità, in virtù della quale il capitano antepone la sorte di Tao Lan al proprio ricongiungimento con la famiglia, ci permette di affrontare anche una questione di natura politica: quando il film venne presentato in concorso a Venezia nel 1999 sorsero non pochi problemi a causa del rinnegamento da parte del governo cinese. Un destino non raro - basti pensare ai travagli subiti anni orsono da Keep Cool dello Zhang più celebre, Yimou - cui nemmeno l'opera di Zhang, magari attraverso la censura-ombra della distribuzione, è certo nuova. La pellicola giunse ugualmente al Lido, vincendovi peraltro il premio speciale per la regia: in patria è uscito tardi e, pare, con dei tagli. A quali elementi ha inteso opporsi, esponendosi in questo modo, l'autorità cinese?: "Ma di quali panni sporchi - si è domandato Roberto Nepoti - si preoccupavano, i cinesi? Diciassette anni è un film quasi edificante. Pur mostrando una società povera e travagliata tra passato e presente, contiene un'opzione di fiducia enormemente ottimistica: è possibile la redenzione attraverso il carcere […] a patto dell'impegno personale e del senso di umanità individuale". E il peregrinare di Tao Lan e Chen Jie è, in effetti, un'occasione per attraversare i mutamenti di una città della Cina odierna - quella del vertiginoso sviluppo economico e della progressiva occidentalizzazione dei costumi (raccontata con maestria nel già citato Keep Cool), dove però è in aumento il divario sociale tra città e campagne - in cui molte famiglie, come quella di Tao Lan, sono trasferite forzatamente causa demolizione dei vecchi quartieri. È quest'ultimo un tema che coinvolge Zhang il quale, nel 1998, vi ha dedicato il documentario DING ZI HU (DEMOLIZIONE E RICOSTRUZIONE), seguendo giorno per giorno, a Pechino, lo smantellamento di un quartiere storico, raccogliendo gli umori di chi lo abitava, costretto a resistere alle pressioni dei costruttori forti della protezione governativa. A patto di leggere il personaggio di Chen Jie quale sorta di protrazione o simbolo di uno Stato che sa muoversi capillarmente pur di raggiungere i fini prefissati - e molte sue affermazioni manifestano in effetti una cieca fiducia nel potere delle istituzioni - si potrebbe porre il ricordo di quest'ultima pellicola all'origine dei timori manifestati dalle eminenze cinesi. In realtà - pur in assenza di evidenti "panni sporchi" (altro, "andreottiano", punto di contatto con la poetica e la carica sociale del Neorealismo) - ci è parso di individuare proprio nella figura del capitano un possibile elemento di disturbo; disagio che, in ragione delle oggettive resistenze manifestate, deve pur aver avuto le sue cause scatenanti. In un paese in cui è forte il ruolo dello Stato, può non aver suscitato molti entusiasmi la creazione - e l'esportazione - di un ruolo la cui umanità e comprensione pare riuscire laddove l'istituzione, nonostante i quasi diciassette anni di carcere, ha fallito. La solidarietà costruita a partire da piccole cose in comune (l'età, la famiglia, ecc.) sembra più pungente ed efficace di una punizione esemplare. La prigione non ha permesso a Tao Lan di maturare, di prepararsi ad un nuovo rapporto con i genitori i quali, a loro volta, appaiono ancora fermi al giorno dell'omicidio. È proprio grazie a Chen Jie se madre e figlia riescono, seppur con difficoltà, a riprendere i contatti, aprendo così la strada al riavvicinamento con Yu Zheng Gao. Senza l'intervento del capitano Tao Lan non sarebbe stata in grado neppure di scegliere l'autobus giusto e tanto meno di rintracciare il nuovo alloggio dei genitori.


Voto: 28/30

Andrea DE CANDIDO
01 - 09 - 01



1 - Zhang Yuan, Note di regia in http://www.luce.it/film/17anni/note.htm
2 - Tra gli altri titoli, segnaliamo il recente Fengkuang Yingyu (Il folle inglese, 1999). Per altre informazioni sull'opera di Zhang cfr. S. Polvani, I malesseri della Cina e il razzismo del profondo sud USA, in "Carte di Cinema", n. 4, primavera 2000, pp. 82-3.
3 - Zhang Yuan, Note di regia, cit. Il corsivo è nostro.


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