Mancano solo pochi minuti al termine della proiezione. La ragazza, al
proprio amante: «Ti amo». Si abbracciano. Stacco. Scena successiva, mattina,
casa di lei. Ancora la ragazza: «La colazione è pronta».
Così si esaurisce il parlato - tutto il parlato! - della giovane
protagonista di FERRO 3 – La casa
vuota. Lui, invece, non parla. Mai.

Poche parole, una o due battute, sono, spesso, sufficienti ai personaggi che
popolano i film di KKD. Oltre ai due protagonisti dell’ottimo FERRO 3 – una
storia d’amore straordinariamente lieve, quasi una favola, tra due esseri,
due fantasmi, di casa in casa vagabondi - basti ripensare ad Han-ki, boss
innamorato in Bad Guy, o
ancora, ai due straziati amanti di
The Isle.
Questi coreani!...
É facile imputare al cinema di KKD una certa tendenza all’”autorialità”, ad
una raffinatezza stilistica, concettuale e ricercata, miscelata ad un gusto
sadico tutto dovutamente orientale. E probabilmente, almeno in parte, è
così. Si perdoni.

La
poeticità zen, un po’ precotta, di cui è intriso, ad esempio,
PRIMAVERA, ESTATE, AUTUNNO,
INVERNO... E ANCORA PRIMAVERA (2003) si riesce a digerire solamente
perché a corredo di un racconto solido, denso, intenso. Ma tant’è! Bisogna
pur venderlo un film! Una concessione al pubblico, e alle case di
distribuzione, ripagato, però, da momenti folgoranti per intensità – il
pianto del piccolo monaco di fronte il serpente morto o, ancora, l’imponente
scalata della montagna con un sasso sulla schiena del monaco maturo
(interpretato dallo stesso regista) – e da un linguaggio cinematografico
pieno, cristallino – esemplare la prima sequenza del film, in cui entrano in
scena per la prima volta i due protagonisti, e vengono presentati attraverso
calibratissime inquadrature fisse, ritmicamente scandite, ai limiti
dell’essenzialità.

É
bene tuttavia precisare a chi abbia visto solo questo titolo dell’autore
coreano e, magari, abbia gradito proprio il coté “cartolina zen” che si
tratta, rispetto alla filmografia completa, di una parentesi, di una vacanza
da una consuetudine fatta di storie aspre, dolorose, di scene cruente, dure.
É indubbio: le sanguinolente lacerazioni, le tumefazioni livide, i colpi e i
calci sordi contro corpi inermi, sono un elemento immancabile oltre che
qualificante dell’intera opera kimiana. L’urto contro lo stomaco dello
spettatore è evidentemente calcolato, compiaciuto almeno quanto compiaciuto
e morboso è l’atteggiamento dello spettatore - quello spettatore,
cinefil-intellettual-popolare che va a vedere film coreani per poter poi
raccontare in giro lo stoico coraggio mostrato davanti alle scene più forti
-.
Si perdoni: niente più che un semplice vezzo, un capriccio d’autore.

Un
capriccio, perciò, è il mostrare una donna che, mentre fa l’amore per la
prima volta con l’uomo che ama, lo vede improvvisamente squarciato da colpi
di mitra e poi fatto a pezzi da una granata (di lui non le resterà che una
mano). Il film è The Coast Guard
(2002), storia di un militare che impazzisce dopo aver ucciso per sbaglio
l’uomo di cui sopra.

Un
vezzo sarebbe, dunque, far partecipare lo spettatore all’agghiacciante
auto-accecamento della ragazzina, protagonista di
Address Unkown (2001), per
mezzo di un pugnale.
Solamente un capriccio, una scelta estetica...
Forse.

Come spesso accade è nei primi film di un autore, solitamente più acerbi e
meno complicati da sovrastrutture, che si possono rintracciare gli intenti
principali, gli obiettivi primari, l’idea guida del processo compositivo
dello stesso.
L’esordio cinematografico di KKD avviene nel 1996 con
Crocodile, già perfetto
paradigma del suo lavoro a venire.

Crocodile vive sotto un ponte sul fiume Han insieme al fratellino e al
nonno, arrangiandosi con mezzi più o meno illeciti per risolvere la
giornata. Una notte salva la vita ad una ragazza, aspirante suicida. Il nodo
che si stringe tra le due disperate esistenze non si scioglierà più.
Una storia d’amore profondamente umana, viscerale, fatta di sesso rubato con
violenza e di dolorose solitudini. Crocodile è un eroe negativo, vile,
randagio. Lo sguardo del regista è onesto quanto affettuoso: anche quando il
protagonista arriva a compiere gli atti più meschini non si riesce a
disprezzarlo, semmai lo si compatisce prevedendo le conseguenze, ancora
peggiori, cui andrà inevitabilmente incontro.
Il segno registico è già pienamente espresso. Il registro varia con grande
intensità alla ricerca di una totale partecipazione dello spettatore: come
la gioia e il riso accompagnano quasi ogni gesto del simpatico fratellino,
così si resta poi sgomenti e atterriti di fronte all’atroce ruolo di
carnefice involontario cui lo stesso è destinato; le ripetute violenze
subite dalla protagonista muovono alla pena mentre è con commozione che si
assiste alla scena d’amore finale tra lei e il suo violentatore.
Con Crocodile KKD comincia a
tracciare un affresco dal sapore medievale, in cui i personaggi sono
diseredati, vagabondi, prostitute, sfregiati; una realtà epica, impietosa,
atroce che si andrà componendo film dopo film, storia dopo storia.
Tra il 1997 e il 1998 il regista realizza altre due pellicole:
Wild Animals e
Birdcage Inn.

La
prima racconta la drammatica amicizia tra due ragazzi ai margini della
società. Chung-Hae (Oceano blu) è uno scaltro pittore che ai pennelli
preferisce il furto; Hong-San (Montagna rossa) è un disertore dell’esercito
Nord Coreano, possente quanto saggio, onesto quanto ingenuo.
Rispetto all’opera prima il piglio è adesso più cinefilo. Appare evidente il
riferimento al cinema di genere ed in particolare al noir: lo schema
narrativo - rapida ascesa e inesorabile declino dei due protagonisti -, i
personaggi - tormentati tra il sogno di una vita normale e una realtà
criminale da cui è impossibile evadere -, le atmosfere - cupe, notturne,
equivoche - rispettano in tutto il modello senza, però, riuscire a
sublimarlo in una forma nuova. Il risultato è, comunque, gradevole: le
trovate grottesche – si pensi all’uso di un pesce surgelato come strumento
di tortura e di morte - e la divertente interpretazione di Jae-Hyean Jo
nella parte di Chung-Hae (già ottimo Crocodile e attore feticcio del regista
coreano) rendono il film piacevole e accattivante. Tuttavia l’aderenza al
genere non convince e costringe la trama e i personaggi ad un’infertile
irregimentazione all’interno di griglie ormai svilite.
Con Birdcage Inn KKD
abbandona le cupe atmosfere notturne che avevano segnato i precedenti lavori
per immergersi in un’atmosfera marina, inaspettatamente delicata, femminile.
Jin-Ah è una prostituta. É giovane, bella, malinconica. Hye-Mi è una
studentessa. Bruttina, insicura, bigotta.

Il
Birdcage Inn è il motel, una locanda per uomini soli gestita dalla madre di
Hye-Mi, in cui Hye-Mi vive e Jin-Ah lavora.
Il film è il racconto di un’iniziazione, di un trapasso: quello dell’acerba
studentessa da un mondo cristallino, in cui i valori, il bene e il male sono
perfettamente definiti, verso una realtà non più pura, sporcata
dall’accettazione del compromesso, viziata e seducente in quanto corrotta e,
in questo, pregnantemente umana. Ad accompagnare la ragazza in questo
passaggio è la prostituta, già violentata, ricattata, offesa dalla vita e,
perciò, matura, consapevole, capace di gioire, di sperare, di amare. Una
simbiosi che si concluderà attraverso il sacrificio di Hye-Mi, della sua
verginità, del suo corpo sacralmente prostituito.
I contorni di un mosaico di “esseri”, di anime desolate, nell’opera del
regista coreano si va definendo in maniera sempre più chiara. La società
organizzata, la comunità di persone non interessa l’autore che, invece,
continua a scavare dentro uomini e donne soli, disperati nel proprio vuoto.
Con il successivo lavoro raggiunge l’esito più folgorante.

In The Isle, presentato alla
mostra del cinema di Venezia del 2000, il regista costringe lo spettatore ad
assistere impotente alla lacerante storia d’amore tra Hee-Jin, gerente di un
campeggio per pescatori, e Hyun-Shik, ex-poliziotto intento a suicidarsi.
Due anime disperate, che si sostengono l’un l’altra attraverso un fuoco che
arde alimentato dal sangue delle lacerazioni fisiche che i due protagonisti
si impongono e ci impongono.
Un dolore sacro, uno strappo nell’anima e nella carne, pervade ogni
fotogramma della pellicola, come effluvi risalenti dallo stagnante e sordo
lago in cui tutta la narrazione ha luogo. Ed è proprio il luogo, unico e
potentissimo, una claustrofobica distesa d’acqua, a sommergere di terribile
silenzio le urla, gli strazi, la morte. Il lago, terzo protagonista del
film, diviene una potente cassa armonica visiva del male dell’anima.

É un discorso che continua, quello di KKD. Un disegno che si arricchisce man
mano di nuovi dettagli, di ulteriori elementi, a completare la
raffigurazione di un’idea, di una visione suggestiva ed etica. Interesse
centrale del discorso kimiano sono i personaggi e i rapporti tra di essi,
non la storia.

Dopo
il rapido ed interessante esperimento di
Real fiction (2000) – un
instant-movie in cui il gioco della finzione cinematografica (la
materializzazione fisica del proprio “io”, la confusione tra sogno e realtà,
il cinema nel cinema) è sviluppato con vivida libertà e fresca curiosità -,
l’autore orientale torna a ritrarre figure perdute, destini perdenti.
Nel
commovente Bad Guy (2001)
poco importa del dramma di Dun-hwa, dolce e innocente studentessa, costretta
alla prostituzione: l’interesse scivola piuttosto sul legame di fatale
dipendenza che si crea tra la ragazza e il boss che le ha rubato la vita
trascinandola sul marciapiede. Le percosse, le violenze, le umiliazioni
subite dalla giovane perdono il carattere di illustrazione realistica di una
realtà sordida per divenire, nuovamente, momenti iniziatici verso una
dimensione umana più autentica, più disperata e per questo più vera.

Come
le cicatrici, le ossa rotte, le mutilazioni sono i segni attraverso cui
l’uomo accetta la propria mortalità e, attraverso questa passione, raggiunge
la dignità di essere umano, così la donna diviene tale attraverso l’offesa
della violenza sessuale, l’insulto della prostituzione.
In questo grande affresco tracciato dall’autore coreano, la normalità di
Dun-hwa, ragazza per bene, il suo essere parte di una collettività retta da
una morale stabilita, è una colpa, un peccato. L’essere solo, disperato di
fronte al proprio destino è l’unica condizione umana accettabile, degna. In
tal modo, la perdita dell’integrità fisica non è più interpretabile come un
semplice artificio registico per muovere gli animi dello spettatore, quanto,
piuttosto come il passaggio obbligato per espiare tale colpa.

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