rassegna KIm ki-duk
 Milano, Cineteca Spazio Oberdan, 12/24:04

 


 

Da Crocodile a FERRO 3: un affresco epico dal sapore medievale

di Marco FERRARA

 

Mancano solo pochi minuti al termine della proiezione. La ragazza, al proprio amante: «Ti amo». Si abbracciano. Stacco. Scena successiva, mattina, casa di lei. Ancora la ragazza: «La colazione è pronta».
Così si esaurisce il parlato - tutto il parlato! - della giovane protagonista di FERRO 3 – La casa vuota. Lui, invece, non parla. Mai.

 


Poche parole, una o due battute, sono, spesso, sufficienti ai personaggi che popolano i film di KKD. Oltre ai due protagonisti dell’ottimo FERRO 3 – una storia d’amore straordinariamente lieve, quasi una favola, tra due esseri, due fantasmi, di casa in casa vagabondi - basti ripensare ad Han-ki, boss innamorato in Bad Guy, o ancora, ai due straziati amanti di The Isle.
Questi coreani!...
É facile imputare al cinema di KKD una certa tendenza all’”autorialità”, ad una raffinatezza stilistica, concettuale e ricercata, miscelata ad un gusto sadico tutto dovutamente orientale. E probabilmente, almeno in parte, è così. Si perdoni.


 

La poeticità zen, un po’ precotta, di cui è intriso, ad esempio, PRIMAVERA, ESTATE, AUTUNNO, INVERNO... E ANCORA PRIMAVERA (2003) si riesce a digerire solamente perché a corredo di un racconto solido, denso, intenso. Ma tant’è! Bisogna pur venderlo un film! Una concessione al pubblico, e alle case di distribuzione, ripagato, però, da momenti folgoranti per intensità – il pianto del piccolo monaco di fronte il serpente morto o, ancora, l’imponente scalata della montagna con un sasso sulla schiena del monaco maturo (interpretato dallo stesso regista) – e da un linguaggio cinematografico pieno, cristallino – esemplare la prima sequenza del film, in cui entrano in scena per la prima volta i due protagonisti, e vengono presentati attraverso calibratissime inquadrature fisse, ritmicamente scandite, ai limiti dell’essenzialità.


 

É bene tuttavia precisare a chi abbia visto solo questo titolo dell’autore coreano e, magari, abbia gradito proprio il coté “cartolina zen” che si tratta, rispetto alla filmografia completa, di una parentesi, di una vacanza da una consuetudine fatta di storie aspre, dolorose, di scene cruente, dure. É indubbio: le sanguinolente lacerazioni, le tumefazioni livide, i colpi e i calci sordi contro corpi inermi, sono un elemento immancabile oltre che qualificante dell’intera opera kimiana. L’urto contro lo stomaco dello spettatore è evidentemente calcolato, compiaciuto almeno quanto compiaciuto e morboso è l’atteggiamento dello spettatore - quello spettatore, cinefil-intellettual-popolare che va a vedere film coreani per poter poi raccontare in giro lo stoico coraggio mostrato davanti alle scene più forti -.
Si perdoni: niente più che un semplice vezzo, un capriccio d’autore.


 

Un capriccio, perciò, è il mostrare una donna che, mentre fa l’amore per la prima volta con l’uomo che ama, lo vede improvvisamente squarciato da colpi di mitra e poi fatto a pezzi da una granata (di lui non le resterà che una mano). Il film è The Coast Guard (2002), storia di un militare che impazzisce dopo aver ucciso per sbaglio l’uomo di cui sopra.
 

 

Un vezzo sarebbe, dunque, far partecipare lo spettatore all’agghiacciante auto-accecamento della ragazzina, protagonista di Address Unkown (2001), per mezzo di un pugnale.
Solamente un capriccio, una scelta estetica...
Forse.
 


Come spesso accade è nei primi film di un autore, solitamente più acerbi e meno complicati da sovrastrutture, che si possono rintracciare gli intenti principali, gli obiettivi primari, l’idea guida del processo compositivo dello stesso.
L’esordio cinematografico di KKD avviene nel 1996 con Crocodile, già perfetto paradigma del suo lavoro a venire.

 


Crocodile vive sotto un ponte sul fiume Han insieme al fratellino e al nonno, arrangiandosi con mezzi più o meno illeciti per risolvere la giornata. Una notte salva la vita ad una ragazza, aspirante suicida. Il nodo che si stringe tra le due disperate esistenze non si scioglierà più.
Una storia d’amore profondamente umana, viscerale, fatta di sesso rubato con violenza e di dolorose solitudini. Crocodile è un eroe negativo, vile, randagio. Lo sguardo del regista è onesto quanto affettuoso: anche quando il protagonista arriva a compiere gli atti più meschini non si riesce a disprezzarlo, semmai lo si compatisce prevedendo le conseguenze, ancora peggiori, cui andrà inevitabilmente incontro.
Il segno registico è già pienamente espresso. Il registro varia con grande intensità alla ricerca di una totale partecipazione dello spettatore: come la gioia e il riso accompagnano quasi ogni gesto del simpatico fratellino, così si resta poi sgomenti e atterriti di fronte all’atroce ruolo di carnefice involontario cui lo stesso è destinato; le ripetute violenze subite dalla protagonista muovono alla pena mentre è con commozione che si assiste alla scena d’amore finale tra lei e il suo violentatore.

Con Crocodile KKD comincia a tracciare un affresco dal sapore medievale, in cui i personaggi sono diseredati, vagabondi, prostitute, sfregiati; una realtà epica, impietosa, atroce che si andrà componendo film dopo film, storia dopo storia.
Tra il 1997 e il 1998 il regista realizza altre due pellicole: Wild Animals e Birdcage Inn.


 

La prima racconta la drammatica amicizia tra due ragazzi ai margini della società. Chung-Hae (Oceano blu) è uno scaltro pittore che ai pennelli preferisce il furto; Hong-San (Montagna rossa) è un disertore dell’esercito Nord Coreano, possente quanto saggio, onesto quanto ingenuo.
Rispetto all’opera prima il piglio è adesso più cinefilo. Appare evidente il riferimento al cinema di genere ed in particolare al noir: lo schema narrativo - rapida ascesa e inesorabile declino dei due protagonisti -, i personaggi - tormentati tra il sogno di una vita normale e una realtà criminale da cui è impossibile evadere -, le atmosfere - cupe, notturne, equivoche - rispettano in tutto il modello senza, però, riuscire a sublimarlo in una forma nuova. Il risultato è, comunque, gradevole: le trovate grottesche – si pensi all’uso di un pesce surgelato come strumento di tortura e di morte - e la divertente interpretazione di Jae-Hyean Jo nella parte di Chung-Hae (già ottimo Crocodile e attore feticcio del regista coreano) rendono il film piacevole e accattivante. Tuttavia l’aderenza al genere non convince e costringe la trama e i personaggi ad un’infertile irregimentazione all’interno di griglie ormai svilite.

Con Birdcage Inn KKD abbandona le cupe atmosfere notturne che avevano segnato i precedenti lavori per immergersi in un’atmosfera marina, inaspettatamente delicata, femminile. Jin-Ah è una prostituta. É giovane, bella, malinconica. Hye-Mi è una studentessa. Bruttina, insicura, bigotta.

 

 

Il Birdcage Inn è il motel, una locanda per uomini soli gestita dalla madre di Hye-Mi, in cui Hye-Mi vive e Jin-Ah lavora.
Il film è il racconto di un’iniziazione, di un trapasso: quello dell’acerba studentessa da un mondo cristallino, in cui i valori, il bene e il male sono perfettamente definiti, verso una realtà non più pura, sporcata dall’accettazione del compromesso, viziata e seducente in quanto corrotta e, in questo, pregnantemente umana. Ad accompagnare la ragazza in questo passaggio è la prostituta, già violentata, ricattata, offesa dalla vita e, perciò, matura, consapevole, capace di gioire, di sperare, di amare. Una simbiosi che si concluderà attraverso il sacrificio di Hye-Mi, della sua verginità, del suo corpo sacralmente prostituito.
 


I contorni di un mosaico di “esseri”, di anime desolate, nell’opera del regista coreano si va definendo in maniera sempre più chiara. La società organizzata, la comunità di persone non interessa l’autore che, invece, continua a scavare dentro uomini e donne soli, disperati nel proprio vuoto. Con il successivo lavoro raggiunge l’esito più folgorante.
 


In The Isle, presentato alla mostra del cinema di Venezia del 2000, il regista costringe lo spettatore ad assistere impotente alla lacerante storia d’amore tra Hee-Jin, gerente di un campeggio per pescatori, e Hyun-Shik, ex-poliziotto intento a suicidarsi. Due anime disperate, che si sostengono l’un l’altra attraverso un fuoco che arde alimentato dal sangue delle lacerazioni fisiche che i due protagonisti si impongono e ci impongono.
Un dolore sacro, uno strappo nell’anima e nella carne, pervade ogni fotogramma della pellicola, come effluvi risalenti dallo stagnante e sordo lago in cui tutta la narrazione ha luogo. Ed è proprio il luogo, unico e potentissimo, una claustrofobica distesa d’acqua, a sommergere di terribile silenzio le urla, gli strazi, la morte. Il lago, terzo protagonista del film, diviene una potente cassa armonica visiva del male dell’anima.
 

 


É un discorso che continua, quello di KKD. Un disegno che si arricchisce man mano di nuovi dettagli, di ulteriori elementi, a completare la raffigurazione di un’idea, di una visione suggestiva ed etica. Interesse centrale del discorso kimiano sono i personaggi e i rapporti tra di essi, non la storia.

 

 

Dopo il rapido ed interessante esperimento di Real fiction (2000) – un instant-movie in cui il gioco della finzione cinematografica (la materializzazione fisica del proprio “io”, la confusione tra sogno e realtà, il cinema nel cinema) è sviluppato con vivida libertà e fresca curiosità -, l’autore orientale torna a ritrarre figure perdute, destini perdenti.
 

Nel commovente Bad Guy (2001) poco importa del dramma di Dun-hwa, dolce e innocente studentessa, costretta alla prostituzione: l’interesse scivola piuttosto sul legame di fatale dipendenza che si crea tra la ragazza e il boss che le ha rubato la vita trascinandola sul marciapiede. Le percosse, le violenze, le umiliazioni subite dalla giovane perdono il carattere di illustrazione realistica di una realtà sordida per divenire, nuovamente, momenti iniziatici verso una dimensione umana più autentica, più disperata e per questo più vera.
 

 

Come le cicatrici, le ossa rotte, le mutilazioni sono i segni attraverso cui l’uomo accetta la propria mortalità e, attraverso questa passione, raggiunge la dignità di essere umano, così la donna diviene tale attraverso l’offesa della violenza sessuale, l’insulto della prostituzione.
In questo grande affresco tracciato dall’autore coreano, la normalità di Dun-hwa, ragazza per bene, il suo essere parte di una collettività retta da una morale stabilita, è una colpa, un peccato. L’essere solo, disperato di fronte al proprio destino è l’unica condizione umana accettabile, degna. In tal modo, la perdita dell’integrità fisica non è più interpretabile come un semplice artificio registico per muovere gli animi dello spettatore, quanto, piuttosto come il passaggio obbligato per espiare tale colpa.