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Ripensare il documentario Il festival di Pesaro dedica, nel suo 40° compleanno, un ampio spazio al documentario e al suo linguaggio, ripensato, rielaborato e rivoltato negli ultimi anni da un forte movimento di attualizzazione che, da Bowling a Colombine in poi, lo ha portato, sempre più spesso, alla distribuzione di sala. Sempre più politico, ma inserito in strutture linguistiche agili e slegate da coercizioni estetico-teoriche, il "nuovo" documentario aspira a raggiungere platee più vaste e meno specializzate, come strumento di intrattenimento e, nello stesso tempo, di riflessione ideologica. Ripensare il documentario: La pelota vasca di Julio Medem Presentato, con grande rumore mediatico, alla scorsa edizione del Festival di San Sebastian/Donostia, La pelota vasca, la piel contra la pietra, segna un momento importante nella carriera artistica del regista basco, che con la sua prima opera, Vacas, aveva già affrontato la realtà controversa della regione insanguinata da una silenziosa sorta di guerra civile. Nazionalismo contro ragione unitaria vengono, per la prima volta, esposte in una unica pellicola; vittime e carnefici, ETA e Batasuna, governo spagnolo e studiosi del fenomeno, concorrono a dimostrare la complessa realtà di un paese senza pace. L'intelligenza di Medem sta nel posizionare il film in quella zona d'ombra che corre fra il film di finzione e l'opera documentaria, alternando, con sapienza e la consueta attenzione estetica (che digitale e alta definizione portano ai massimi risultati), materiali di diversa provenienza, etnografia, fiction, televisione ed interviste di forte impatto. Obiettivo finale, neanche troppo nascosto, portare il documentario nel cuore di una platea "normale" un documento anomalo, soffocato dalle ragioni medianiche, colpendo al cuore il governo Aznar e una crisi che si allontana sempre più dalle sue cause trasformandosi in un conflitto di genere, capro espiatorio senza più tetto né legge. Con un'ultima nota paradossale: per uno strano caso di nemesi storica, la "cosa basca" è stata l'origine, involontaria, della caduta del governo Aznar. Ripensare il documentario: Power and Terror: Noam Chomsky in Our Times di J. Junkerman C'è da chiedersi (e c'è già chi, nei tumultuosi ultimi mesi dell'amministrazione Bush) quanto debba il movimento di opposizione (in forma cinematografica) all'esempio Micheal Moore e quanto invece questo possa aver causato, per una sorta di azione e reazione, danni al movimento stesso. Senza Moore, è chiaro, questo documento interessante, esplicito anche se purtroppo non nuovo, probabilmente non avrebbe raggiunto l'Europa; senza Moore, probabilmente, avrebbe ottenuto una eco più forte, più violenta, forse meno sorda. Va ammesso che il pubblico europeo, tradizionalmente più lungimirante e attento del modello consumieristico-americano, conosce già, o si immagina, buona parte delle rivelazioni "sconvolgenti" di Chomsky. La realtà statunitense, anche quella accademica, è purtroppo ancora ben lungi dall'autocoscienza della natura del terrorismo e delle sue cause socio-culturali. Il documentario di Junkerman si limita a mostrare i discorsi di Chomsky, in una forma estetica più simile al filmino familiare natalizio che ad un prodotto cinematografico destinato alla vendita in dvd (distribuito, a breve, da Revolver), alcune interviste, interventi senza dubbio interessanti ma di fondo privi di centro. La materia, interessante e coinvolgente, manca purtroppo di una conoscenza di fondo del mezzo cinema, quella conoscenza che Moore, appunto, ha dimostrato al suo pubblico, e che, di fondo, non può non nuocere al Potere e Terrore di Chomsky. Un piccolo peccato in un film dal cuore importante. Ripensare il documentario: Travis Wilkerson e Thom Andersen Il cinema di Thom Andersen, "scoperto" dal festival di Pesaro quest'anno ma ispiratore (silenzioso e discreto) di un cinema alto (come quello di Rafelson, per esempio), sembra lavorare sulle pause, sui vuoti, sui tagli di realtà che creano nuova realtà. Quello che si perde, nel suo rapporto con quello che resta, è il centro della nuova azione cinematografica, commento artistico e nello stesso tempo politico della storia e della teoria del fare cinema. Da Zoopraxographer, film-saggio sulla decostruzione del personaggio tradizionale, fino allo sperimentalissimo rock documentary (Short line long line), Andersen racconta lo spazio apparentemente vuoto fra cinema e vita, uno spazio ideologico forte e pericoloso, che unisce arte e materia per una creazione senza fine. Il collage, invece, è l'elemento caratteristico dell'opera di Travis Wilkerson, unione di oggetti a contrasto (testo scritto contro immagine contro musica) che raccontano, come nel caso di An injury to one, l'omicidio di un leader sindacalista che è insieme la morte delle coscienza di un'intera città, o, come Accelerated under-development: the idiom of Santiago Alvarez, biografia, autobiografia e finzione, metacreazione e metalinguaggio che attraversa e supera l'opera di Alvarez, regista cubano. L' altra distribuzione: il caso Sixpack Nata a Vienna nel 1990 grazie all'impegno di Peter Tscherkassky, regista, e Brigitta Burger-Utzer, la casa di distribuzione Sixpack può contare, ad oggi, su un invidiabile catalogo che elenca i nomi più interessanti della recente cinematografia austriaca, da Michael Haneke a Ulrich Seidl. Il cinema che "attraversa" gli uffici della Sixpack supera e aggiorna continuamente le proposte mainstream con opere, principalmente non-commerciali (per formato, modi e contenuti), che riscrivono e reinterpretano alcune tra le correnti sperimentali tradizionali. Found-footage, avanguardia e intriganti crossover visivi raccontano spaccati di quotidianità e di ordinario grigiore, ricerca sui corpi che si trasforma in ricerca all'interno dell'anima di una Mitteleuropa che prende coscienza di sé. Dai 16 mm di Schwarzer Garten di Dietmar Brehm (1987-1999) ai più narrativi episodi della sottosezione The new generation is female, Sixpack mostra, con l'orgoglio della differenza, i risultati (di critica e pubblico) ottenuti con un lavoro di cesello sul creatore (al quale spesso viene fornito il supporto produttivo) e sullo spettatore. La cultura della visione, i registi di Sixpack ne sono sicuri, può arrivare anche alle platee meno specializzate. |
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