LE OMBRE DELLA
PAURA
QUESTIONE APERTA PER IL LETTORE
Diamo uno sguardo al passato e uno al presente:
Il sesto senso, THE Blair Witch
Project, The others, Scream 1-2 e 3,
The ring, The Eye, ma anche i
vari SpiderMan, Daredevil, X-Men
1 e 2, non sono altro che pellicole di genere (alcune più puramente horror,
altre appartenenti a quello che, con tutte le ampiezze del termine, viene
definito fantastico) che sono risultati i maggiori incassi degli ultimi anni
fino alla stagione presente. Non hanno incontrato soltanto il favore del
pubblico ma hanno sollevato veri e propri dibattiti critici oltre che
stilistici. I titoli sopracitati (e sono soltanto i primi che saltano alla
memoria) hanno un’altra caratteristica che li accomuna: tutti sono prodotti
provenienti dall’estero e, per essere pignoli e anche un po’ nazionalisti (
e di questi tempi è un atteggiamento degno di un pirata temerario) molti
plagiano o ‘citano’ (per usare un termine caro ai critici) molti elementi e
situazioni che si erano viste già in pellicole italiane firmate dai vari
Bava, Argento, Freda, Margheriti, Martino. Non è il caso, né sono le mie
intenzioni, di promuovere qui un tipo di cinema che mi è caro e di far
riscoprire e rivalutare le opere di registi quasi tutti ormai scomparsi; ciò
è già stato ampiamente approfondito da riviste specializzate e saggi più o
meno attraenti. Quello che vorrei far notare è molto più semplice e
apparentemente più veniale: perché continuiamo a importare pellicole di
questo genere (che incassano milioni e milioni) mentre in Italia non se ne
producono più? I registi e i critici che ho incontrato durante le riprese di
Le ombre della paura – Il
cinema italiano del terrore 1960/1980, il documentario che ho
diretto insieme a Marco Cruciani, mi rispondevano “Perché sono cambiati i
tempi! L’horror non funziona più?” (ma, bollettini alla mano, non sembra che
sia così!) oppure “Perché in Italia non esistono più i veri produttori,
quelli che si chiamavano Cristaldi, Rizzoli, Amati. Oggi si mette tutto in
mano alle distribuzioni e alle televisioni!” (e questo è verissimo, la
sudditanza che il nostro cinema vive nei confronti della tv è ormai cosa
nota) o ancora “Perché i film horror e thriller costano troppo! In Italia
non ci sono i soldi per farli, così li importiamo dall’estero: il produttore
non rischia niente e i distributori dormono sonni tranquilli!” (ma allora
come spiegare successi di THE Blair
Witch Project, Il sesto senso o
The ring nei quali gli
effetti speciali non ricoprono che un minimo ruolo?). Arrivati fin qui,
questo piccolo articolo dovrebbe concludersi tirando le somme delle cose
dette, ma per ora mi piacerebbe mantenere la suspense, non fosse altro
perché non saprei come terminare, e quale appagante finale proporre al
lettore. La questione delle attuali produzioni dei film di genere in Italia
(praticamente quasi inesistenti) è, secondo me, ancora molto stimolante e
aperta, soprattutto se si guarda anche alle pellicole che continuiamo ad
importare (dagli Usa, dalla Cina, dal Giappone, o da qualsiasi altro paese).
Proporrei anche di andare a guardare la natura e i film dei registi
nostrani: c’è qualcuno che ancora si confronta con i generi cinematografici
oppure lo evita perché non fa ‘autore’? Ma soprattutto, c’è ancora qualcuno
che riesce a scrivere e mettere in scena una sceneggiatura ricca di trovate,
di suspense, avvincente? E quest’ultimo interrogativo, se mi permettete, non
lo ridurrei soltanto alle pellicole di genere, ma lo amplierei a tutti i
prodotti nati dai registi che popolano l’italico suolo.
APPUNTI DI VIAGGIO
Ho da poco ricevuto la notizia (04/06/2003, n.d.r.) che il mio documentario
Le ombre della paura- Il cinema
italiano del terrore 1960/1980 sarà presentato al Festival di
Bellaria di imminente apertura (5-8 giugno 2003). La cosa continua a
rendermi felice. Dico ‘continua’ perché la sorte di questo lavoro può
ritenersi fortunata: dopo essere passato, lo scorso anno, al Premio Libero
Bizzarri, al ToHorror Film festival (nel quale ha ricevuto una menzione
speciale della giuria), al Festival di Torino nella sezione Sopralluoghi
Italiani, ed essere stato proiettato in numerose manifestazioni e cineclub
(dal Detour di Roma, al Link di Bologna, dal Festival del cinema
indipendente di Sant’Agapito fino all’Università di Roma Tre), questo lavoro
sembra continuare ad avere un vita abbastanza attiva. Parlare dei miei
lavori mi risulta abbastanza difficile e imbarazzante (oltrechè invadente
nei confronti del lettore) e mi piacerebbe riuscire, seppur velocemente,
ricordare alcune situazioni che
Le ombre della paura
mi ha fatto vivere. Le riprese del documentario si sono svolte e protratte
per tutto il 2001, mentre alcuni mesi hanno richiesto il montaggio e la
postproduzione delle oltre 15 ore di materiale raccolto, grazie anche alla
collaborazione di Marco Cruciani (coregista del film) e di Daniele Casolino,
tutt’ora il produttore e montatore principale dei diversi progetti
intrapresi. Per circa un anno abbiamo importunato, interrogato, contattato
una ventina di ‘addetti ai lavori’ e con la loro preziosa disponibilità
siamo riusciti (speriamo) a ricostruire la storia del genere thriller e
horror italiano ed a raccogliere prezioso materiale da consegnare, non
soltanto agli appassionati, ma a chiunque volesse capire di più su questo
tipo di pellicole e produzioni. Quindi come dimenticare il carissimo Antonio
Tentori, illuminato compagno divertito e divertente di trasferte e pasti più
o meno lauti, durante i quali l'ho interrogato sulla natura e le
caratteristiche a me sempre sfuggenti del cinema hard. Oppure Antonio Bido,
il regista di Il gatto dagli occhi
di Giada e Solamente nero,
che mi sorprese proiettandomi in super 8 i primi lavori girati in giovane
età e che rivelavano una personalità tutt’altro che limitata al genere
cinematografico che più gli era proprio. Surreale fu anche una tavola
rotonda alla quale partecipai durante il Festival di Sant’Agapito: vi erano
seduti anche Marco Cruciani, Antonio Tentori, Antonio Margheriti (aka
Anthony Dawson) e Alberto Grifi. Fu davvero curioso sentire Grifi, uno degli
autori indipendenti più estremi, irriducibili, sperimentali che l’Italia
abbia mai avuto, esclamare: “Aaah, ecco Margheriti! Che piacere…! Voglio
proprio vedere che volto ha!” dimostrando così una perfetta conoscenza del
lavoro che Margheriti aveva svolto durante i suoi cinquant’anni di carriera.
Margheriti purtroppo è scomparso lo scorso novembre, proprio alla vigilia
dell’apertura del Festival di Torino, al quale era stato invitato per
presenziare alla presentazione di
Le ombre della paura.
Estremamente piacevole è stata anche l’esperienza torinese. Gli incontri con
Gianfranco Barberi (della sezione Sopralluoghi), Stefano Della Casa
(direttore del festival e da sempre appassionato al genere italiano), ma
anche con Bressane, al quale Torino ha dedicato una retrospettiva, hanno
rivelato non soltanto una curiosità nei confronti dei registi che hanno reso
popolare la paura italiana nel mondo, ma anche un occhio molto attento verso
quello che si può ancora imparare dal guardare determinati film. Racconto
tutto ciò non per compilare un nostalgico e personale quadernetto di
viaggio, ma per fermare l’attenzione su chi e perché ancora non vuole porsi
barriere nei confronti del cinema di genere; professionisti che potrebbero,
molto meglio di me, far capire cosa e come certi registi hanno lasciato in
eredità al nostro cinema, e illustrare le invenzioni narrative che ancor
oggi vengono saccheggiate (basta guardare ad Hollywood, che da anni detiene
tutti i diritti dei film di Mario Bava, pronti a diventare costosi remake).
Improbabile e fuori luogo è lo sperare una rinascita del cinema di genere in
Italia; inevitabilmente, però, mi chiedo se è possibile ancora parlare del
cinema fantastico italiano senza quel sapore di amara nostalgia che rimane
in bocca, e se qualcosa invece può ancora accadere. |
Ombre
e suspence
di Mauro BUONOCORE
Quando si parla di cinema italiano del secondo dopoguerra i nomi che vengono
all’attenzione di studiosi, critici, studenti e appassionati sono per lo più
quelli dei grandi autori che hanno portato la cinematografia nostrana ad
essere nota in tutto il mondo. De Sica, Rossellini, Zavattini rappresentano
la tradizione di quel modo di raccontare la vita che ha preso il nome di
Neoralismo; Visconti, Antonioni, Pasolini, Bertolucci sono riconosciuti dal
pubblico e la critica internazionale come esponenti di sensibilità capaci di
innovare il linguaggio dell’arte cinematografica grazie all'intuizione
poetica; Monicelli e Scola hanno saputo dare anima alla commedia
all’italiana mettendo sul grande schermo vizi e virtù di un popolo visto
attraverso la lente del sarcasmo, dell’ironia, della risata sferzante e a
volte amara. I decenni che dalla seconda guerra mondiale hanno portato fino
alla fine del secolo scorso sono stati anche gli anni dei film “di genere”,
produzioni che nascevano per intrattenere, considerate da tutti - dai
produttori al pubblico alla critica - opere di seconda serie perché
realizzate spesso in poco tempo, costruite su storie stereotipate che altro
intento non avevano se non quello di far trascorrere agli spettatori un’ora
e mezza di puro divertimento.
Tra i generi di questi film, un’attenzione a parte merita l’horror. La paura
è il suo elemento caratterizzante, la suspence lo strumento immancabile in
grado di avvincere coloro che riempivano le sale dei cinema.
La paura, dal profondo dell’animo di ciascun essere essere umano si
proiettava sullo schermo grazie alle opere di registi e sceneggiatori in
grado di costruire, tra trama, colonna sonora e fotografia, una macchina
narrativa capace di tenere gli spettatori col fiato sospeso.
Le ombre della paura è un documentario che, in novanta minuti, ripercorre
due decenni fondamentali della storia italiana di questo genere
cinematografico. Gli autori - Paolo Fazzini, Marco Cruciani e Daniele
Casolino - hanno intervistato i protagonisti che, tra il 1960 e il 1980,
hanno saputo impaurire il pubblico nel buio delle sale dei cinema italiani.

Registi (da Pupi
Avati a Antonio Margheriti, da Aldo Lado a Antonio Bido), sceneggiatori
(come Dardano Sacchetti), critici (Antonio Tentori, Antonella Fulci,
Gabriele Barrera) ed effettisti (come Giannetto De Rossi) compaiono a
raccontare una realtà che spesso la critica ha messo in disparte, rendendo
questi film vittime di un ostracismo che per molti versi non hanno meritato
e non meritano.
Se in Italia, infatti, solo in tempi recenti i nomi di Mario Bava, Riccardo
Freda e Lucio Fulci hanno iniziato a comparire tra gli argomenti di studio
nelle cattedre di storia del cinema italiano, all’estero questi stessi
autori godono di un’ammirazione vastissima (vedi articoli collegati). Ma in
Italia le cose stanno in maniera diversa se Lamberto Bava, figlio di Mario,
racconta nell’intervista del documentario che una giornalista una volta gli
chiese: “Ma lei, da grande, che film vuole fare?”.
L’opinione comune ritiene che non sono film per persone adulte quelli che
raccontano di vampiri e di streghe, di assassini e di misteri. Certo sono
film nati tra molte ristrettezze economiche, girati in pochissimi giorni
costringendo operatori e tecnici a mirabolanti peripezie, come racconta
Antonio Margheriti, notissimo all’estero con lo pseudonimo di Anthony
Dawson.
Eppure molti di questi film non sono affatto opere rozze, ma al contrario
sono testimoni di un raro gusto cinematografico e un’abilità tecnica
esaltata dalle angustie produttive.
Ma ancora un altro merito ha avuto l’horror italiano, e
Le ombre della paura
non manca di raccontarlo. In venti anni la percezione della paura è cambiata
negli italiani. Così come la società ha cambiato pelle, passando da realtà
strettamente legate alle tradizioni rurali ai ritmi di vita della civiltà
industrializzata, così la paura ha mutato il modo di manifestarsi, sono
cambiate le storie. I racconti che vedevano come protagonisti mitiche figure
di streghe impossessate dal demonio, vampiri e spiriti maligni che
minacciavano la quiete, hanno lasciato il posto ad orrori tutti
metropolitani, a serial killer e a omicidi paranoici.
La realtà cambia e la paura, che della natura umana è forse il sentimento
più affascinante e meno controllabile, cambia pelle, trova nuove ombre, ma
rimane sempre la stessa. |

Antonio Margheriti,
artigiano d’altri tempi
Lucio Fulci lo chiamava “l’imperatore delle Filippine” perché lì aveva
girato più di dieci film; i critici avevano l’abitudine di soprannominarlo
“il Roger Corman italiano”, paragonandolo (con avventata sommarietà) al
celebre regista-produttore statunitense. Ma lo pseudonimo che Antonio
Margheriti aveva scelto per se’ era Anthony M. Dawson, con il quale ha
firmato, durante i suoi quarant’anni di carriera, circa sessanta film, senza
considerare i progetti ai quali aveva partecipato come produttore o curatore
degli effetti speciali. Abbiamo tentato di cogliere il segreto del successo
e della longevità professionale incontrando Margheriti pochi mesi della sua
scomparsa, avvenuta lo scorso 4 novembre, durante le riprese del film
documentario Le ombre della paura – Il cinema
italiano del terrore 1960/1980.
“E’ più importante fare un brutto film al momento giusto che un bel film al
momento sbagliato! – ci ha raccontato – io ho fatto molti film nei momenti
sbagliati perché facevo la fantascienza quando tutti facevano i western,
facevo i western quando gli altri facevano i film sugli antichi romani… ero
sempre fuori genere! Questo però si rivelò un vantaggio, poiché quando
realizzavo un film non incontravo molta concorrenza e così sono sempre
riuscito a vendere all’estero i miei lavori.”
Una dichiarazione dai vaghi toni paradossali, ma che fa bene comprendere
come e perché Margheriti sia arrivato a dirigere i suoi film attraversando
diversi generi cinematografici e specializzandosi soprattutto nella
fantascienza, nell’horror e nell’avventuroso.
Ciò che forse possedeva, a differenza degli altri “artigiani” del nostro
cinema, era quel senso imprenditoriale che lo portò a dirigere film anche
per grandi case di produzione, come la Fox e la Columbia, senza snaturare il
metodo di lavoro che il regista ha sempre mantenuto.
“Giravo il film negli Stati Uniti, ma poi tornavo a Roma e nel prato vicino
a casa mia realizzavo, con i miei ragazzi, gli effetti speciali. Dopo una
settimana consegnavo il girato e si completava così il film.”
Dai lavori che Margheriti ci ha lasciato risalta la bravura tecnica, la
credibile messa in scena che, anche scontrandosi in alcuni casi con
sceneggiature e storie approssimative, mantiene un ritmo sempre godibile e
divertente. Una capacità che gli permetteva di girare battaglie (finte) di
elicotteri (finti) nei dintorni del Ponte di Ferro a Roma e trasformarli,
sullo schermo, in estenuanti scontri militari in Vietnam.
“Più il budget è povero più tento di farlo apparire grande. Nei miei film ci
sono trucchi, impicci, battaglie, esplosioni… e scoppia questo, e succede
quell’altro… insomma, riuscivo a dare una grandezza al film più di quanto le
spese sostenute consentivano.”
Il suo cinema è fatto di budget controllati, di mezzi tecnici limitati, di
previsioni di riscontri commerciali; ma anche di passione, di ostinazione,
di sperimentalismo, quando sperimentare consisteva ancora nell’utilizzare un
nuovo zoom per riuscire a realizzare una carrellata altrimenti impossibile.
“Mentre giravo Il pianeta degli uomini spenti,
Mario Bava, nel teatro accanto, stava girando La
maschera del demonio.
Una sera mi prestò uno zoom appena uscito sul mercato e ciò mi permise di
girare l’inizio del mio film. Mi piace pensare a me e a Mario (Bava) non
come a degli avventurieri del cinema, ma a come dei grandi avventurosi.”
Avendo l’occasione di parlare con lui, eravamo curiosi, tra l’altro, di
sapere come vivevano, negli anni ’60, i cosiddetti “artigiani” (cioè coloro
che avevano gravitato sempre intorno ad un cinema commerciale) e coloro che
invece venivano definiti “autori”, che proprio in quel periodo esordivano
realizzando opere memorabili per la storia del nostro cinema; volevamo
sapere se c’era uno scambio di opinioni tra questi personaggi così
differenti o se, anche fortuitamente, si incontravano in qualche ristorante.
“Può sembrare strano – ha raccontato Margheriti – ma io non conosco molta
gente di cinema. Ho sempre lavorato per conto mio curando la produzione, la
regia, gli effetti, ed ho sempre lavorato molto. Vidi Accattone di Pasolini
per la prima volta al cinema insieme a Tonino Delli Colli, che era alle sue
prime esperienze, e mi piacque moltissimo, ma non ho mai avuto la fortuna di
incontrare questi grandi registi. Io, così come Mario, eravamo più chiusi in
un nostro giro, che poi era quello del cinema commerciale. Ma Dario Argento,
ad esempio, non l’ho mai conosciuto personalmente!”

La
quasi imbarazzante modestia e pacatezza di Margheriti assurge a simbolo di
un certo cinema italiano, di un periodo in cui fare film significava essere
pratici, ingegnosi, appassionati, e bravi. Anche perché realizzare pellicole
commerciali, fino a una ventina di anni fa, voleva dire confrontarsi con
l’estero e cercare di accaparrarsi una nicchia di mercato non trascurabile.
Basti pensare che Il mondo di Yor (1982) uscì negli Stati Uniti con 1425 copie, una cifra che non ha nessun
paragone con le limitatissime potenzialità del cinema italiano di adesso.
I generi cinematografici sono scomparsi dal cinema italiano degli anni più
recenti, colpito da trasformazioni totali che riguardano anche le strutture
ed il modo di considerare il cinema da parte di chi il cinema si ostina a
farlo e a produrlo.
“Anche in quei tempi non era facile trovare la condizione di produrre film
di un certo tipo in Italia. Per poter girare i miei film ho spesso tentato
la via diretta della produzione e questo mi ha tagliato un po’ le gambe. Le
cose sarebbero andate forse diversamente se avessi avuto dietro di me un
produttore importante. Con Addessi (che ha prodotto
Danza
Macabra,
forse il più celebre dei film realizzati da Margheriti, NdA), per esempio,
ho fatto molti buoni film, anche se a basso costo; la figura del produttore
era e continua ad essere fondamentale, ma oggi proprio non esiste più.”
I diafanoidi vengono da Marte
(film citato da Allen Ginsberg e da Wim Wenders),
Danza
macabra
(un capolavoro del gotico italiano), Contronatura (dal quale Kubrick trasse
ispirazione per la “cascata” di sangue in Shining),
L’ultimo cacciatore
(citato da Tarantino come uno dei suoi film preferiti) sono soltanto alcuni
titoli della sterminata filmografia di Margheriti; pellicole che andrebbero
riviste senza la snobbistica pretesa di elevarli a capolavori dimenticati,
ma goderli così come Dawson li avevi pensati e girati: con affetto,
attenzione, passione e soprattutto con uno spirito disposto al divertimento.
Cosa, quest’ultima, rara da ritrovare nel cinema italiano di oggi.
Paolo Fazzini
|