Le ombre della paura

Il cinema italiano del terrore 1960/1980

Un documentario di Paolo FAZZINI, MARCO CRUCIANI

di Gabriele FRANCIONI
Paolo Fazzini, oltre che collaboratore di Kinematrix, è ormai affermato autore di documentari di varia natura, presentati ai più importanti Festival nazionali, con i quali ha ottenuto alcuni prestigiosi riconoscimenti.
Dall’indagine sociale all’appassionata testimonianza di realtà musicali locali e non, dalle “clip” all’ importantissimo lavoro di recupero della memoria svolto con Le ombre della paura [serie di interviste sul tema del cosiddetto “horror all’ italiana” o “spaghetti horror”], Fazzini cerca di conferire un taglio registicamente “alto” ad un non-genere cinematografico, che vuole uscire dai limiti apparentemente ristretti ad esso imposti da molta critica.
Inoltre, e segnatamente con il già citato lavoro sull’horror [“ (…) l’ obiettivo dell’opera”, come scrive Fazzini, “è quello di ricostruire, attraverso le testimonianze raccolte, lo sviluppo del cinema italiano del terrore dalla sua nascita, qui identificata nel 1959, fino ai nostri giorni”], il regista di Ascoli Piceno si pone come una personalità di riferimento per gli amanti del genere e per coloro che ad esso arrivano attraverso il cinema del più importante aficionado di Lucio Fulci, Mario Bava o Antonio Margheriti, ovvero Quentin Tarantino.
Partire da KILL BILL, passando per le interviste concesse sul tema dall’autore di RESERVOIR DOGS, e arrivare a LE OMBRE DELLA PAURA, è percorso obbligato per chi non si voglia limitare al mero recupero delle fonti di mille citazioni, ma intenda comprendere – rivalutandolo definitivamente – il cinema di genere tout-court.

Lo speciale che Kinematrix dedica ora a Fazzini, amplia lo spazio precedentemente riservatogli, anticipando tra l’altro l’uscita di un libro del regista e l’inizio della seconda parte del lavoro già svolto, dedicata agli anni dal 1980 ad oggi e a personalità quali Dario Argento, Lamberto Bava e Sergio Stivaletti.

Nell’anno in cui lo stesso Tarantino premia il “documentarista” Moore con la Palma d’oro di Cannes, ci sembra opportuno continuare a sottolineare la crescente importanza di un modo sempre più vitale e sempre più necessario di porsi all’ interno dell’industria cinematografica.

 
Paolo FAZZINI, FILMOGRAFIA REGIA

 

2004

COLTELLI (corto)

RED CLOUDS (videoclip per Disarmonia Mundi)

WE ARE THE FUTURE (spot sociale)


2003

IL SOGNO DI ADOLPHE SAX

UNA STORIA DEL SAXOFONO
(documentario)

RITMI DI VITA (documentario)



2002

 

LE OMBRE DELLA PAURA

IL CINEMA ITALIANO DEL TERRORE 1960/1980

(documentario)

ALBANIA (documentario)



2001

 

L’UOMO ASTRATTO (corto)



1998

FRATELLO DI SANGUE (corto)

PERSI NELLO SPECCHIO DI NESSUNO
(corto)

L’ULTIMA STANZA (corto)

PASSI (corto)


 

Estratti..
SERGIO MARTINO

Il successo per Sergio Martino arriva nei primi anni '70, soprattutto grazie ai thriller Lo strano vizio della signora Wardh, La coda dello scorpione, Tutti i segreti del buio, Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave e I corpi presentano tracce di violenza carnale, spesso interpretati da Edwige Fenech diva emergente del cinema italiano di genere che diventerà nota prestando il volto alle commedie degli anni ’80. In questo estratto Martino parla del suo esordio nel thriller e del rapporto con la Fenech.

D.: Come è nato il suo primo thriller Lo strano vizio della signora Wardh?
R.: Lo strano vizio della signora wardh è nato come film a basso costo, almeno rispetto ai parametri di allora, però aveva la caratteristica commerciale di poter essere esportato. Normalmente la critica italiana da più risalto a quei registi che hanno ottenuto un successo esclusivamente artistico, ma credo che bisognerebbe dare anche spazio a chi è riuscito a conquistarsi uno spazio commerciale. Prendiamo il caso di Pietro Francisci, che era un esperto regista di film mitologici; egli, per quanto ignorato, in tanti anni di carriera è riuscito a fare del nostro cinema un veicolo di esportazione, così come ha fatto Sergio Leone con il western e Dario Argento con il thriller. Io sono riuscito ad affrontare molti generi differenti e credo che i migliori successi li ho ottenuti dirigendo la commedia degli anni ’80. Ricordo di aver diretto anche uno degli ultimissimi western prodotti in Italia, e cioè Mannaja del 1977. Dopo quell’anno il western ha esaurito le sue possibilità commerciali e così mi sono dedicato prevalentemente alla commedia.

D.: Cosa può dirci di Edwige Fenech, attrice che ha inizialmente recitato nei suoi thriller ma che poi è divenuta famosa come volto delle commedie degli anni ‘80?
R.: Edwige Fenech sembrava non essere adatta per interpretare un film thriller perché ha una fisicità molto solare! Io credo che la sua dimensione migliore l’abbia trovata nella commedia all’italiana! Si è detto che nei miei film c’è una componente di morbosità erotica, ma oggi un’osservazione di questo tipo potrebbe far ridere perché il massimo che faceva la Fenech era stare sotto la doccia quando arrivava l’assassino (ride).

D.: Si è soliti credere che i film di genere prodotti in quegli anni erano realizzati velocemente e con budget ridotti. E’ vero?
R.: Oggi faccio molta televisione e devo dire che i ritmi produttivi che questo mezzo impone sono molto più veloci e pressanti di quelli a cui ero sottoposto negli anni ‘70 e ’80. Spesso mi viene richiesto di girare un prodotto televisivo della durata di 100 minuti in quattro settimane di lavorazione. I registi come me, quelli della mia generazione, ancora oggi sopravvivono perché abbiamo una preparazione tecnica che appresa durante gli anni del cinema commerciale, e quindi siamo in grado di girare anche 40 inquadrature al giorno. Ricordo invece che la lavorazione dei miei film thriller durava almeno sei settimane. Inoltre, con i costi ridotti e nel tempo a disposizione bisognava essere capaci di ricreare suggestioni e atmosfere particolari che magari film di altro genere non dovevano possedere. Bisogna considerare anche che eravamo privi di tutti quei supporti tecnologici di cui si dispone adesso, come per esempio le steadycam, e così si ricorreva a degli espedienti artigianali che dovevano risultare efficaci e funzionali. Per cercare di creare qualcosa di suggestivo e, per esempio, girare sequenze in cui c’era un effetto di rotazione degli attori ricordo che io e l’operatore legavamo il protagonista sul seggiolino del carrello della macchina da presa e poi, tenendo la m.d.p. ferma, lo facevamo ruotare vorticosamente (ride).

 

Estratti..
LAMBERTO BAVA

Famoso regista di film horror, Lamberto Bava in questo estratto ricostruisce un ritratto del padre Mario, delle sue passioni e della sua abilità di fare cinema.

D.: Lei è stato aiuto regista di suo padre fin dai film che girò negli anni ’60. Crede che suo padre sapesse di essere, in un certo modo, un caposcuola di un genere cinematografico?
R.: Credo che nessuno, durante la propria carriera, si ritenga un precursore. Possiamo dire che forse mio padre aveva consapevolezza di essere capace di trovare delle soluzioni che potevano risultare stilisticamente e tecnicamente innovative. Ma con sicurezza posso affermare che non ha mai pensato che altri avrebbero seguito e ampliato il suo discorso. Potrei citare, per esempio, 6 donne per l’assassino del 1964 nel quale, per la prima volta, è stata inserita la ripresa in soggettiva di un assassino valorizzata da accurati ed espressivi movimenti della macchina da presa. Ma, parlando da figlio, posso comunque dire di aver sempre avuto l'impressione che mio padre, non soltanto come regista ma anche e soprattutto come uomo, fosse sempre stato mentalmente 30 anni avanti rispetto al periodo nel quale si trovava a vivere. (ride)

D.: In Italia le tematiche relative al gotico o all’orrore, inteso anche in senso più ampio, non hanno mai riscontrato un vasto successo…
R.: Sì, è vero, qui da noi non si amava e non si è mai amato il genere horror, non soltanto al cinema, ma anche in letteratura. E' difficile da credere quando, invece, pensiamo che uno degli scrittori internazionali più importanti è Edgar Allan Poe, che ha sempre affrontato un certo tipo di tematiche. Da noi la cultura del gotico non ha mai attecchito perché abbiamo avuto altre tendenze e generi come la commedia e la satira, che sono forse cose più caratteristiche del nostro paese. Ma devo dire che comunque in Italia non è completamente assente una letteratura fantastica. Se prendi il "Satyricon" di Petronio, tanto per citare un famosissimo autore, nella versione integrale vi puoi trovare vasti riferimenti a streghe, fantasmi e ad una certa cultura esoterica. Fin dal primo film che mio padre diresse, e cioè La maschera del demonio nel 1960, le sue pellicole hanno sempre avuto un grande successo all’estero.
In Italia gli incassi di La maschera del demonio sono stati bassissimi, invece negli Stati Uniti, in Inghilterra, quel film è tutt’oggi considerato un classico. Molte persone lo ricordano ancora! E poi quel film 'creò', per così dire, Barbara Steele che fu un'attrice scelta a Londra. Siccome il film veniva recitato in inglese per essere meglio esportato, i provini per scegliere i protagonisti si effettuavano a Londra. Non dimentichiamo inoltre che quelli erano gli anni in cui riscuotevano un buon successo gli horror della casa di produzione inglese Hammer e dalla statunitense American International Pictures. In Italia invece possiamo affermare che il primo regista che sia riuscito a rendere davvero popolare questo genere cinematografico è stato Dario Argento.

D.: Proverbiale erano la modestia e la discrezione che caratterizzavano il modo di essere di Mario Bava. Lei che lo ha conosciuto oltre che professionalmente anche umanamente cosa può raccontarci al riguardo?
R.: Posso riferire un aneddoto che credo chiarisca la situazione: una volta, quando era bambino, mio padre aveva fatto un disegno e lo aveva firmato ‘Mario Bava’. Mio nonno, che era anche lui nel mondo del cinema, gli diede un ceffone dietro la testa dicendo “Sei solo un bambino! Non puoi firmare un disegno che hai fatto! Chi ti credi di essere? Neanche Michelangelo firmava i suoi quadri!” Questo è il tipo di educazione che ha ricevuto! Questo riserbo, questa umiltà, l’ha poi conservata per tutta la vita. Anche in campo cinematografico, non ha mai reclamizzato le invenzioni e i trucchi che ingegnosamente realizzava. Ma questa è una specie di caratteristica di famiglia (ride). Mio nonno Eugenio, per esempio, inventò il principio reflex 15 anni prima che la Arriflex lo brevettasse. Prese una macchina da presa, che allora era di legno, ci inserì uno specchio con l'inclinazione di 45 gradi ed ottenne così una moderna cinepresa, ma non pensò mai che brevettando una cosa del genere sarebbe potuto diventare ricco.

D.: Pochi invece sembrano essere a conoscenza della meticolosa preparazione con la quale suo padre si avvicinava, di solito, alla realizzazione di un nuovo film …
R.: è vero, e mi dispiace! Anche nella povertà di mezzi mio padre curava molto questa fase; disegnava sempre dei dettagliati storyboard, cosa che in Italia si fa pochissimo.

D.: E forse altrettanto trascurata è la passione di suo padre per la letteratura…
R.: I libri che mio padre ha accumulato nel corso di una vita hanno riempito circa due appartamenti! (ride) Era un uomo che leggeva moltissimo, e di tutto! Era anche un grande appassionato della collana Urania. Tra le pagine che leggeva riusciva sempre a scovare una trovata, un raccontino dal quali prendere spunto per le sue idee. Amava anche Maupassant, al quale anch’io tengo molto. In una novella di Maupassant, infatti, si trovano delle pagine nelle quali si narra di mobili che prendono vita e si muovono e da lì prese spunto per una delle sequenze più suggestive di Shock. Devo anche dire che mio padre non amava molto lavorare con gli attori (ride) e diceva che il suo più grande sogno era quello di girare un film senza la presenza di queste figure professionali. Ecco, dalla combinazione tra questo desiderio e la novella di Maupassant è nato il finale di Shock.

D.: Lei ha diretto, diversi anni fa, il remake di La maschera del demonio, film peraltro mai distribuito in Italia. Cosa successe?
R.: A quei tempi avevo cominciato a lavorare per Mediaset che stava curando un progetto europeo: ogni paese doveva produrre e girare un film horror per il circuito televisivo. Hanno pensato a me e proposi di rigirare, naturalmente in chiave moderna, il primo film di mio padre. Riuscimmo a realizzare quella pellicola, ma tutto il progetto però ebbe un arresto. E’ un peccato che non sia mai uscito perchè il budget era piuttosto consistente e quindi la regia e gli effetti speciali, curati da Sergio Stivaletti, risultavano efficaci. Ho lavorato altre volte per Mediaset che, alla fine degli anni ’80, affidò a me, a Lucio Fulci e a Umberto Lenzi una serie di film per la televisione. Allora, però, non furono mai mandati in onda! Probabilmente Mediaset aveva paura di essere additata come una tv che produceva e trasmetteva contenuti violenti e quindi ha un po’ seppellito ciò che aveva prodotto.

 

Estratti..
DARDANO SACCHETTI

La sua carriera di sceneggiatore è iniziata dopo un fatidico incontro con Dario Argento, per il quale scrisse il soggetto de Il Gatto a Nove Code; quindi ci sono stati i copioni scritti con e per Mario Bava (Reazione a catena) e Lucio Fulci (L’aldilà, Quella villa accanto al cimitero, Zombi 2). Autore di più di 50 lavori, in questo estratto Sacchetti parla delle collaborazioni con i maestri del cinema italiano del terrore.

D.: Lei ha appena accennato alla guerra del Vietnam e mi è balzato subito alla memoria un film diretto da Antonio Margheriti: Apocalypse domani
R.: Non è un caso, infatti, che ho scritto quella sceneggiatura: protagonisti di quel film sono dei reduci del Vietnam che si trasformano in cannibali. Scrivendo quel copione ho tentato di fondere, in un’unica storia cinematografica, degli elementi storici con quelli della paura più classica. Proprio in quegli anni, inoltre, la cronaca nera italiana iniziava a riferire notizie di omicidi e morti efferate, di delitti quotidiani e cittadini che si verificano a diretto contatto con le persone; non erano più dei fatti che si verificavano in campagne lontane o in posti isolati! Tutto ciò inevitabilmente ha iniziato a riflettersi nel cinema che ha visto così la nascita del thriller italiano, un genere nel quale esplodono cattiveria e aggressività, e nel quale si mostra il delitto in tutte le sue componenti più orride che fino a quel momento venivano nascoste. Pensate a film come Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci o a Reazione a catena di Mario Bava: sono film nei quali si inizia a presentare una lettura diversa delle proprie paure e delle proprie angosce. Attraverso quelle pellicole si può capire come la società si stesse spogliando da tutta l’ipocrisia che aveva accumulato, e come quindi desiderasse mostrare le rughe, le crepe, le cose più brutte che aveva represso e nascosto nel corso degli anni!

D.: Conoscendola, lei mi sembra essere una persona con un carattere piuttosto diverso da quello di un grande regista del cinema fantastico italiano, Mario Bava. Come è riuscito a collaborare con lui?
R.: Una volta lessi una dichiarazione di Hitchcock nella quale diceva “Avete presente il quadro di Siqueiros Contadini al tramonto? Nel quadro sono raffigurati tre contadini che tornano a casa: il primo porta una cesta di legno, il secondo trasporta una brocca, mentre il terzo ha una mano dietro la schiena” E Hitchcock ci chiede (e chiede a se stesso): “Perché ha una mano dietro la schiena? Cosa nasconde ? Forse un coltello?” Immagino che Hitchcock sia stato un uomo che, invece di fermarsi alla lettura lineare di un quadro che nella realtà non cela nessun sottinteso di questo tipo, si poneva ugualmente questo genere di domande. E ciò suscita, inevitabilmente, inquietudine. Anche Mario, in un certo modo, era fatto così! Con lui era possibile creare situazioni d’inquietudine e di ansia. D’altra parte Bava era un uomo che viveva di ansie, era un tipo molto pauroso! Mi raccontava che da giovane era molto magro e quindi, quando pioveva e soffiava un forte vento, era solito mettersi dei sassi in tasca perché aveva paura di volare via! (ride) Però aveva anche il coraggio di affrontare le proprie paure ridendoci sopra: una delle grandi qualità di Mario era quella di possedere un’eccezionale ironia. Io invece ero totalmente diverso: non ho mai avuto timore di nulla! Anzi, trovo davvero divertente osservare le paure che gli altri avvertono. Dall’incontro tra le paure di Mario e la mia voglia di scherzarci sopra sono nati quei film che avevano degli elementi granguignoleschi, quasi splatter. Costruendo queste storie Mario riusciva ad esorcizzare le proprie paure, mentre per me era un modo per mettere alla prova lo spettatore che si spaventava di fronte ad un film in cui il sangue non era altro che succo di pomodoro.

D.: Il carattere forte, il cinismo, l’acuta ironia sono state le peculiarità di un altro fondamentale regista italiano: Lucio Fulci. Per lui ha scritto tanti titoli indimenticabili come Zombi 2, Paura nella città dei morti viventi, Quella villa accanto al cimitero, …E tu vivrai nel terrore: l’aldilà.
R.: Lucio era una delle pochissime persone che ho incontrato capaci di leggere e analizzare una sceneggiatura. Capiva subito se poteva funzionare o se c’erano delle lacune nel meccanismo del racconto. Mario Bava era un uomo molto emotivo e, come tutti gli uomini emotivi, era dotato di un grande intuito inconscio. Fulci invece era più razionale, possedeva una mente che definirei ‘matematica’. Infatti a Lucio piacevano molto i gialli classici nei quali, alla fine, tutto doveva essere chiaro. La personalità di Lucio, inoltre, era di una vitalità prorompente, quasi aggressiva. Ciò si può ritrovare nei suoi film come Non si sevizia un paperino o Una lucertola con la pelle di donna, nei quali sono presenti dei personaggi anche sadici. Soltanto verso la fine degli anni ’70 Lucio ha recuperato le sue straordinarie capacità visionarie che forse mancavano ai primi thriller da lui diretti, che erano molto razionali, e che colpivano molto più la mente piuttosto che il cuore.

D.: 7 note in nero del 1977 è uno dei titoli meno famosi della filmografia di Fulci ma che invece considero un film molto interessante, con un meccanismo narrativo estremamente moderno. Non è forse un caso che diverse pellicole statunitensi sembrano aver preso ispirazione da quella pellicola; penso in particolare a Le verità nascoste di Zemeckis e a The gift di Sam Raimi nel quale è possibile riconoscere più di un punto di contatto con 7 note in nero. Come ricorda questo film?
R.: 7 note in nero è uno dei film al quale sono più affezionato. Però ha due difetti: il personaggio principale femminile, innanzitutto. Nella stesura della sceneggiatura avevamo immaginato una donna proveniente da un ceto sociale medio, ed invece nel film si è trasformata in una sofisticata aristocratica. Ciò impedisce allo spettatore di immedesimarsi e quindi di entrare emotivamente nel meccanismo della storia. Questo difetto nuoce anche alla trovata sulla quale si basa tutto il film: mettere in scena una persona dotata di facoltà che gli permettono di vedere il futuro ma che, allo stesso tempo, è incapace di sfuggire ai pericoli cui va incontro. Il film inizialmente doveva essere prodotto dai De Laurentiis che detenevano i diritti di un romanzo dal quale trarre la sceneggiatura. Fulci e Roberto Gianviti, che allora era il suo sceneggiatore di fiducia, ci lavorarono sopra per quattro mesi senza concludere nulla di soddisfacente. Come ho già detto, in quegli anni, io avevo la fama di essere lo sceneggiatore di Argento e, di conseguenza, di essere lo specialista di questo genere di film. Quindi fui chiamato a lavorare allo script. Lucio era solito iniziare le sedute di scrittura esclamando: “Il primo che dice una stronzata lo butto fuori di casa!” (ride) Ricordo che lavorammo per tutta l’estate durante la quale stendemmo un copione assolutamente insoddisfacente e che i De Laurentiis giustamente bocciarono. Fulci era già in ritardo di un anno con la consegna di questa sceneggiatura e, ormai sconsolato, una volta mi confidò che gli sarebbe piaciuto molto fare un film sulla preveggenza e sul futuro che si ripete. Qualche giorno dopo mi balenò in mente la trovata del carillon, della musica e delle sette note, che poi inserimmo nel film. Lucio ne fu entusiasta e scrivemmo subito un trattamento che facemmo leggere ai De Laurentiis e che loro nuovamente rifiutarono. I produttori lo respinsero non soltanto perché non credevano nel film, ma anche perché stavano attraversando un periodo di crisi. Non dimentichiamoci che stiamo parlando del 1975/1976, e cioè gli ‘anni di piombo’: anni bui durante i quali le persone uscivano meno di casa, i cinema chiudevano alle undici di sera e tutto il mondo dello spettacolo attraversava una grande crisi economica. Fulci però credeva in quella storia e lo propose ad un’altra produzione che, alla fine, riuscì a produrre il film con dei finanziamenti adatti ed un buon cast.

 

Estratti..
ANTONIO MARGHERITI

In questo estratto Antonio Margheriti racconta come e perché venivano prodotti e realizzati i film commerciali fino ad alcuni decenni fa, segni di un modo di far cinema ormai scomparso.

D.: Lei ha esordito nel ‘60-’61 con un film di fantascienza intitolato Space Men proprio negli anni in cui esordirono molti degli autori contemporanei come Pasolini, Bellocchio, Bertolucci. Come ricorda quegli anni così importanti per l’economia e la vitalità del cinema italiano?
R.: Allora nasceva un nuovo cinema d’autore. Negli anni ’60 si è parlato molto della politica dei produttori e dei numerosi esordi che ci sono stati, ma è anche vero che i produttori hanno fatto esordire dei registi, che poi sono scomparsi, soltanto perché al primo film venivano pagati meno (ride)! Ricordo che vidi Accattone di Pasolini per la prima volta al cinema insieme a Tonino Delli Colli, che era alle sue prime esperienze, e mi piacque moltissimo. Così come mi piacque molto anche Grazie zia di Salvatore Samperi, ma non ho mai avuto la fortuna di incontrare questi grandi registi. Può sembrare strano, ma non conosco molta gente di cinema. Ho sempre lavorato per conto mio, curando la produzione, la regia, gli effetti, ed ho sempre lavorato molto. Io, così come Mario Bava, eravamo più chiusi in un nostro giro, che poi era quello del cinema commerciale. Però abbiamo avuto la soddisfazione di vedere tutti i nostri film distribuiti mondialmente: io ho girato molti film di produzione interamente americana. Non lo dico per vantarmi, ma per far notare che per quanto realizzassimo dei prodotti con mezzi ridotti, riuscivamo ad essere competitivi in molti mercati. Il mondo di Yor, per esempio, lo trassi proprio da un fumetto, fu venduto al Canada ed agli Stati Uniti per un milione e mezzo di dollari e fu distribuito in 1425 copie! Nulla a che vedere con le cifre che circolano oggi.

D.: Mario Bava ha affermato “Il cinema un’arte? Ma che arte è quella in cui lavorano 60 persone?” Lei è d’accordo?
R.: Si può anche fare un cinema diverso, d’autore. A volte vediamo dei film straordinari! Ma non è propria del mio carattere la voglia di affrontare il grande film d’arte. Bisogna considerare che anche i grandissimi pittori avevano degli aiutanti che si occupavano di dividersi il lavoro, ma la paternità dell’opera è attribuita a chi coordina il tutto. Quindi non sono d’accordo nel dire che il cinema non può essere artistico perché si fa in 60 persone. Dipende dagli obiettivi che ci si pone, ed il mio obiettivo è quello di fare un cinema commerciale.

D.: Lei ha più volte accennato alle parole ‘autore’, ‘film d’arte’ o ‘cinema commerciale’. Che differenza c’è, secondo lei, tra un “autore” ed un “artigiano”?
R.: Mi hanno sempre definito un artigiano forse perché nei film che facevo intervenivo in quasi tutte le fasi, dalla produzione agli effetti speciali, alla sceneggiatura. Possiamo affermare che un regista è sempre l’autore dell’opera, ma i registi che lavoravano nelle condizioni in cui lavoravo io sono considerati artigiani perché, per ragione di costi, finivamo per usare più le mani che il cervello! (ride)
Posso però dire che il film con il quale avrei dovuto esordire doveva essere una sorta di film d’autore! Era la storia di un ragazzo che abbandonava la campagna, dove era nato, ed andava a vivere in città, per poi tragicamente tornare da dove era partito. Si doveva intitolare Lo zanzarone perché questo ragazzo era molto affascinato dal vedere passare gli elicotteri, che allora assomigliavano molto a degli insetti. Questi apparecchi rappresentavano per lui la fuga verso città. Ero riuscito quasi a realizzarlo, ma poi ci furono dei problemi e non se ne fece nulla. Poi conobbi il produttore Goffredo Lombardo, per il quale scrissi Classe di ferro e Gambe d’oro che diresse Turi Vasile. Quelle esperienze furono il lasciapassare per ottenere la possibilità di girare il mio Space men.

D.: Che differenze nota tra il modo di fare cinema di venti/trenta anni fa e quello di oggi? Come si può spiegare il declino dei generi cinematografici italiani?
R.: Ho sempre sostenuto che è più importante fare un brutto film al momento giusto che un bel film al momento sbagliato! Io ho fatto molti film nei momenti sbagliati perché facevo la fantascienza quando tutti facevano i western, facevo i western quando gli altri facevano i film sugli antichi romani… ero sempre fuori genere! Questo però si rivelò un vantaggio, poiché quando realizzavo un film non incontravo molta concorrenza e così sono sempre riuscito a vendere all’estero i miei lavori. Oggi non c’è richiesta di mercato! In quegli anni noi italiani eravamo dei bravi venditori esteri. Oggi invece l’influenza della televisione nel cinema ha decretato la scomparsa dei produttori: i veri produttori non esistono più. Oggi ci sono degli intermediari fra le televisioni ed altre organizzazioni. E poi anche i costi si sono molto elevati, quindi si preferisce distribuire film esteri, di sicuro successo, piuttosto che produrli, ma questo è un ragionamento proprio di un affarista e non di un produttore! Nessuno rischia più in prima persona!

 

Le ombre della paura

Il cinema italiano del terrore 1960/1980

Un documentario di Paolo FAZZINI, MARCO CRUCIANI

FILM DOCUMENTARIO

 

LE OMBRE DELLA PAURA

Il cinema italiano del terrore 1960/1980

 

Durata: 85 minuti

 

Regia e sceneggiatura

Marco Cruciani

Paolo Fazzini

 

Montaggio, postproduzione e musiche originali

Daniele Casolino

 

Produzione

JN Graphics www.jn-g.com

Gore Bros Produzioni  www.gorebros.it

 

Distribuzione: Emik (Milano)

 

Sinossi: Il documentario ripercorre, in novanta minuti, due decenni fondamentali della storia del cinema horror e thriller italiano. Il film ricostruisce la genesi e gli sviluppi di questo particolare genere, con l’ausilio di interviste rivolte alle personalità più illustri e rappresentative che, tra il 1960 e il 1980, hanno saputo impaurire il pubblico nel buio delle sale contribuendo a rendere tali produzioni così originali ed apprezzate.

 

Con: Pupi Avati, Lamberto Bava, Antonio Margheriti, Antonio Bido, Armando Crispino, Aldo Lado, Renato Polselli, Luigi Cozzi, Sergio Martino, Daria Nicolodi, Dardano Sacchetti, Giannetto De Rossi, Claudio Simonetti, Gabriele Barrera, Antonio Tentori, Antonella Fulci.

 

Proiezioni pubbliche: Cineclub Detour (Roma 2002), Torino Film Festival (Torino 2002), Tohorror Film Festival (Torino 2002 – menzione speciale della giuria), Rassegna del documentario Premio Libero Bizzarri (San Benedetto del Tronto 2002), Link Project (Bologna 2002), Festival del cinema indipendente Sant’Agapito (Isernia 2002), Università Roma Tre (Roma 2002), Bellaria Film Festival (Bellaria 2003), Sonar Film Festival (Firenze 2004).

 

 

LINK

TORINO FILM FESTIVAL
CAFFè EUROPA
TAMTAMCINEMA

 

Le ombre della paura

Il cinema italiano del terrore 1960/1980

Un documentario di Paolo FAZZINI, MARCO CRUCIANI

 IL LIBRO IN PREPARAZIONE

 

LE STORIE DEL CINEMA ITALIANO DEL TERRORE
I RACCONTI DEI CREATORI DELLA PAURA
(TITOLO PROVVISORIO)

 AUTORE: PAOLO FAZZINI

CASA EDITRICE: EDITORIA & SPETTACOLO (ROMA) 

 

Il progetto del libro nasce con lo scopo di proporre al lettore le 30 interviste esclusive ai protagonisti del cinema del terrore italiano che Paolo Fazzini ha raccolto in circa tre anni di ricerche. Pochi, tra i filoni del nostro cinema, sono stati così ignorati come il fantastico e il thrilling e altrettanto pochi, fra i nostri grandi registi, sono stati così ignorati come Mario Bava o Lucio Fulci, Sergio Martino e Antonio Margheriti, rivalutati soltanto dopo le parole di ammirazione e di riconoscenza che registi americani come Martin Scorsese, Tim Burton, Joe Dante e Quentin Tarantino gli hanno tributato. L’inversione di tendenza è stata comunque decisiva: la classificazione per generi inizia ad essere considerata come un espediente orientativo per guidare lo spettatore nella scelta dello spettacolo e si iniziano a considerare delle personalità che, pur operando all’interno di quel sistema commerciale, riuscivano ad esprimere una visione personale ed originale attraverso la messa in scena ed il linguaggio filmico adottato. L’obiettivo dell’opera è quindi quello di ricostruire, attraverso le testimonianze raccolte, lo sviluppo del cinema italiano del terrore dalla sua nascita, qui identificata nel 1959, fino ai nostri giorni. Non si escluderà inoltre la presenza di paragrafi storico-critici con lo scopo di far orientare il lettore all’interno del decennio preso in considerazione in ogni capitolo. L’autore delinea le caratteristiche fondamentali ma non analizzerà nel dettaglio i film e le opere dei singoli registi in quanto scopo principale dell’opera è quello di dedicare ampio spazio alle parole dei personaggi intervistati, ai professionisti quindi che hanno direttamente vissuto tali esperienze cinematografiche. Sarà possibile, quindi, addentrarsi nelle singole personalità che hanno concretamente preso parte alla realizzazione delle pellicole, ma anche scoprire i retroscena, i trucchi, gli aneddoti nascosti dietro la macchina-cinema. Insomma, il cinema dei generi come chiave che possa permetterci di andare oltre l’universo chiuso del cinema d’autore (anch’esso un genere?) per entrate in un dibattito dalla prospettiva multiforme.

 

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CAFFè EUROPA
TAMTAMCINEMA

 

Le ombre della paura

Il cinema italiano del terrore 1960/1980

Un documentario di Paolo FAZZINI, MARCO CRUCIANI