|
|||
![]() |
|||
I film selezionati per la rassegna - documentari, materiali inediti dell’epoca, lungometraggi già noti (Qualcuno volò sul nido del cuculo che Radio Alice non mancava di citare, nelle sue trasmissioni, tra i film di culto e ancora Paz! di Renato De Maria e Il belpaese di Luciano Salce proiettato con gusto della contrapposizione al capolavoro di Forman) – offrono l’occasione di un’incursione in quel “territorio della mente che è diventato questo ’77 bolognese”, citando le parole di Roy Menarini nell’introduzione alla rassegna. Un’epoca che costringe anche a ripensamenti o correzioni di tiro, come ci dimostrano gli entusiastici commenti al film di Chiesa da più parti, anche da quella sinistra “istituzionale” che ai tempi degli scontri di piazza a Bologna faticava a trovare un dialogo con i cosiddetti “autonomi”. Ma al di là delle inevitabili contrapposizioni politiche la rassegna ha consentito momenti di interessante e stimolante confronto e riflessione sui temi della comunicazione e dei linguaggi.
La storia di Radio Alice è anche storia di una rottura profonda, di
uno strappo consumatosi ai danni di linguaggi impotenti a comprendere e
raccontare la trasformazione di una società, la nascita di una rivoluzione
vissuta - in maniera più o meno conscia - come possibile. Se “tutte le
storie parlano di oggi e di domani”, l’intuizione profonda dell’emittente
bolognese sulla necessità non soltanto di una “controinformazione” (quindi
di un contenuto “altro”) ma di una riflessione sulla “forma” della
comunicazione è di straordinaria attualità. E se l’importanza della
tecnologia, la necessità di una capillarizzazione dell’informazione e della
partecipazione collettiva ai processi comunicativi avevano trovato uno
spazio di realizzazione nel telefono e nelle chiamate in diretta alla radio-
trovata ai tempi unica nel suo genere- oggi la rete, le sue comunità
virtuali, i blog e tutti gli spazi di discussione offerti ad una comunità
teoricamente illimitata si configurano come luogo in cui il linguaggio può
tornare a darsi come “spazio di pura ironia” (F. Berardi).
di G. Chiesa (60’)
La fine della favola è emblematicamente la fine dell’innocenza di una generazione. “Mai più rivolta, se non sarà divertente”: la frase che chiude il film è un grido di ribellione, beffardo e irriverente, è la riaffermazione del valore dell’ironia contro la stupidità delle armi puntate contro i microfoni della radio, contro ogni repressione che tolga voce a chi non chiede se non uno spazio possibile di diversità.
di Renato De Maria (’72)
“Un
film di rapina”, lo definisce il protagonista Franco “Bifo” Berardi narrando
divertito del furto della pellicola, nato in occasione del trasloco dal
vasto appartamento di Berardi nel cuore di Bologna, punto di riferimento
delle più significative esperienze artistiche e politiche “di rottura” degli
anni settanta e ottanta del capoluogo emiliano, luogo da cui prese avvio
anche la breve avventura di Radio Alice . E’ la lettura dell’ingiunzione di
sfratto - la voce fuori campo è quella dello stesso Bifo - ad aprire la
pellicola, mentre la macchina da presa indugia sui luoghi della casa con
inquadrature fisse. Mura scalcinate che lasciano trasparire dalla mano di
intonaco bianco le tracce dipinte di scenari e templi del lontano -forse non
troppo - oriente; stanze semispoglie non fosse che per le centinaia di
volumi stipati su essenziali scaffali di metallo, la catena arrugginita
dello sciacquone, un drago dipinto sulla parete. E mentre i due
bolognesissimi operai della ditta di trasloco ammassano casse di libri
scrivanie e reti di letti Berardi prende la parola per celebrare “il grande
funerale” della casa e di un’epoca - e in qualche modo per liberarsene. Il
racconto di Bifo e degli altri inquilini o ospiti di passaggio di questa
sorta di “comune” dove ogni privacy è bandita fanno riemergere, all’interno
di una storia privata, una memoria collettiva. La forza evocativa del
racconto restituisce il sapore di una stagione della vita irripetibile, del
giovanile senso di “precarietà e tumulto felice” senza mai scadere, lo
ripetiamo, in melense nostalgie da laudatores temporis acti. E il
settantasette diventa il discrimine, lo spartiacque che segna il climax e
l’esaurirsi di quell’esplosione di energie creative la cui tensione ed
intensità non potevano essere mantenute senza tradire se stesse.Il
settantasette dell’ultima rivoluzione proletaria del secolo, dei movimenti
espansivi, della rivoluzione possibile decreta con il suo esaurirsi
premonitore il disumano di cui diventano simbolo le immagini del primo
bombardamento su Baghdad - la madre di tutte le battaglie - sulle quali il
film si chiude.
La fine anch’essa di un’epoca.
del gruppo Dodo Brothers
Così, con lo stesso spirito pionieristico e un po’ incosciente che già li aveva guidati all’epoca dell’avventura radiofonica, Andrea Ruggeri, Giancarlo “Ambrogio” Vitali e altri “videoteppisti” del collettivo fondatore di Alice si danno un nome, Dodo Brothers, imbracciano l’enorme Super8 e un pesantissimo registratore da 8 kg per raccontare il dopo, e ciò che ne rimane. Il primo filmato, Ciao mamma ciao papà fu commissionato al gruppo dalla seconda rete Rai: la richiesta era quella di un video in cui Radio Alice si raccontasse, l’occasione delle riprese quella del convegno sulla violenza e la repressione tenutosi a Bologna dopo la guerriglia del marzo 1977. Di fronte alla richiesta di tagli che ne epurassero le parti che più si prestavano alla propaganda politica i Dodo Brothers opposero una ferma resistenza ottenendo che il filmato fosse mandato in onda nella sua versione integrale. Una censura qualsiasi sarebbe stata ridicola, anche in tempi in cui l’occhiuta sorveglianza e la censura rizzavano le antenne ad ogni possibile rischio di sovversione e voce “contro” (e che la storia si ripeta senza essere maestra di nulla l’attualità ci dà tristemente conferma). L’intervistatore, microfono alla mano, raccoglie in piazza i commenti sul convegno (“settantamila partecipanti” ha cura di ricordarci poco dopo il giovane che seduto in cima alla torre degli asinelli legge la lista dei nomi dei compagni in carcere: “noi sappiamo contarci, per voi i numeri sono soltanto opportunità politica”); c’è il barista che dà la sua benedizione perché i giovani sono educati e non fanno casini e perché i guadagni ne risentono positivamente; c’è il giornalista appena arrivato da Londra, che poco mastica di italiano e non capisce ciò che gli si chiede e - si suppone -nemmeno quello che sta succedendo; c’è la casalinga con la borsa della spesa in mano che loda chi sta coi comunisti. E ancora quelli di Radio Alice che si incatenano in piazza, il padre partigiano in mezzo ai giovani che ha il figlio in carcere da sei mesi, accusato tra le altre cose di essere amico di Bifo. C’è “l’unico ufficio del Comune in cui non si fanno code”, dove un ragazzo invita ad autodenunciarsi per Alice. E poi i versi sconnessi di chi si ritrova col microfono sotto al naso, l’entusiasmo, le canne, i tamburi e le trombe i cortei, il tumulto felice.
Da Bologna a Milano, l’incursione stavolta è in uno spazio chiuso, quello del Macondo di Mauro Rostagno, centro sociale e “stazione marittima” in una città dove il mare lo si può solo immaginare. Macondo: svendita del ‘68, il titolo del video. C’è una breve intervista a Rostagno che spiega come nelle sue intenzioni Macondo debba essere un luogo di scambio e “svacco”, dove parlare, di sesso e ragazze soprattutto, e dove magari accasciarsi stremati, dove soddisfare tutti i bisogni non primari, tutto ciò che il quotidiano impone di accantonare. La “svendita” del titolo è un’asta organizzata all’interno del locale per accaparrarsi un manifesto di un “padre” del sessantotto che dopo mille spropositati rilanci si conclude col rogo del manifesto tra gli applausi e le risate degli astanti. Il video si chiude su una carrellata di titoli di giornali: il Macondo sotto sequestro, i fondatori arrestati con l’accusa di far circolare droga all’interno del locale. Ancora una volta bavaglio e celerini.
Roberto Freak Antoni, leader degli Skiantos protagonisti dell’altro video Skiantos alla camera, scomoda durante l’incontro a fine proiezione l’esperienza del Living Theatre per raccontare il marasma di quello che è in assoluto il primo video di un concerto del gruppo punk demenziale bolognese. La “rottura dello spazio tra spettatore e attore” si realizza nella sala stretta e sguaiatamente rumorosa del concerto dove la band sfoggia abiti femminili e labbra vistosamente truccate “per far emergere in tutta la sua drammaticità il problema dell’assenza delle ragazze” ai tempi di un femminismo che non concede spazio a compromessi. Prendersi in giro, ironizzare su di sé per allontanare ogni tentazione dottrinale. Le immagini che abbiamo nella memoria hanno il sapore dell’innocenza e dell’ironia, certo in parte data, per ammissione degli stessi protagonisti, da una sostanziale ignoranza linguistica del mezzo. Ci sembra una bella lezione in un’epoca come la nostra dove troppo spesso la leggerezza è solo imbecillità e vacuo e non lo spazio necessario, il balzo agile per guardare il mondo con sguardo più profondo.
Link su KMX:
|
|||