RADIO ALICE E DINTORNI

rassegna officinema

 

05/14:10:2004

BOLOGNA

di Luciana APICELLA


Alice è in paradiso, è proprio il caso di dirlo. Alice e i suoi figli sbirciati, applauditi, scrutati con occhio nostalgico o curioso, con partecipazione attenta per comprendere come mai tra oggi e quel settantasette si sia insinuato un tempo così (s)travolgente, trent’anni di abisso non più componibile, se poi resta nei giovani di oggi come in quelli di ieri quel desiderio di volo e di assalto al cielo, quell’ansia di mutamento e altri mondi possibili che forse al di là di ogni possibile collocazione storica sono imprescindibili momenti di vissuto individuale, che a volte si fa collettivo. A vedere le file di ventenni di oggi e di allora accalcarsi fuori e dentro la Sala Officinema di via Pietralata a Bologna in occasione della rassegna “Radio Alice e dintorni” promossa dalla Cineteca viene da chiedersi il perché di tanto entusiasmo e partecipazione. Una domanda, questa, tornata a più riprese nel corso degli incontri successivi alle proiezioni. Una domanda alla quale non è stata data una definitiva risposta.

I film selezionati per la rassegna - documentari, materiali inediti dell’epoca, lungometraggi già noti (Qualcuno volò sul nido del cuculo che Radio Alice non mancava di citare, nelle sue trasmissioni, tra i film di culto e ancora Paz! di Renato De Maria e Il belpaese di Luciano Salce proiettato con gusto della contrapposizione al capolavoro di Forman) – offrono l’occasione di un’incursione in quel “territorio della mente che è diventato questo ’77 bolognese”, citando le parole di Roy Menarini nell’introduzione alla rassegna.

Un’epoca che costringe anche a ripensamenti o correzioni di tiro, come ci dimostrano gli entusiastici commenti al film di Chiesa da più parti, anche da quella sinistra “istituzionale” che ai tempi degli scontri di piazza a Bologna faticava a trovare un dialogo con i cosiddetti “autonomi”. Ma al di là delle inevitabili contrapposizioni politiche la rassegna ha consentito momenti di interessante e stimolante confronto e riflessione sui temi della comunicazione e dei linguaggi.

La storia di Radio Alice è anche storia di una rottura profonda, di uno strappo consumatosi ai danni di linguaggi impotenti a comprendere e raccontare la trasformazione di una società, la nascita di una rivoluzione vissuta - in maniera più o meno conscia - come possibile. Se “tutte le storie parlano di oggi e di domani”, l’intuizione profonda dell’emittente bolognese sulla necessità non soltanto di una “controinformazione” (quindi di un contenuto “altro”) ma di una riflessione sulla “forma” della comunicazione è di straordinaria attualità. E se l’importanza della tecnologia, la necessità di una capillarizzazione dell’informazione e della partecipazione collettiva ai processi comunicativi avevano trovato uno spazio di realizzazione nel telefono e nelle chiamate in diretta alla radio- trovata ai tempi unica nel suo genere- oggi la rete, le sue comunità virtuali, i blog e tutti gli spazi di discussione offerti ad una comunità teoricamente illimitata si configurano come luogo in cui il linguaggio può tornare a darsi come “spazio di pura ironia” (F. Berardi).
 


Alice è in paradiso (Italia/2002)

di G. Chiesa (60’)


“Sono Alice, cerco la radio”. Una bambina si aggira per le strade e le piazze di Bologna suonando, sollevata da invisibili braccia, a lucidi e signorili campanelli di ottone troppo alti per la sua statura; ma all’altro capo del citofono nessuno sa darle risposta. Con la sua voce si apre il documentario Alice è in paradiso, singolare collage di immagini e animazioni, una sorta di laboratorio od officina preparatoria a quello che sarebbe poi stato il progetto conclusivo di Lavorare con lentezza sulla storia dell’emittente bolognese, un interesse che il regista torinese covava già da diversi anni. Il documentario ricostruisce la parabola di Radio Alice, dall’inizio delle trasmissioni nel febbraio del ’76 alla vicenda della chiusura nel marzo dell’anno successivo in seguito all’incursione della polizia che la mise sotto sequestro accusandola di dirigere gli scontri di piazza seguiti all’uccisione di Francesco Lorusso da parte di un carabiniere, in quell’11 marzo che segna per il movimento bolognese la fine dell’innocenza. Il titolo prende spunto da un testo del ‘76 scritto dal collettivo fondatore della Radio, “Alice è il diavolo”. Un testo, quasi superfluo specificarlo, di riflessione sulla comunicazione e i suoi mezzi e potenzialità. La babele radiofonica di Alice, con la sua assenza di palinsesti e programmazioni, la necessità di non interrompere in alcun modo il “flusso creativo”, la mescolanza di favole e linguaggio pornografico, di Beethoven e punk, viene in qualche modo restituita dal montaggio e dalla struttura filmica che mescola materiali di ogni genere e provenienza, interviste di oggi ai protagonisti di allora, immagini di repertorio, le figurine animate, a tinte acide, di Alice e dei personaggi del paese delle meraviglie sovrapposti alle architetture e alle ampie piazze di Bologna. La voce narrante che scandisce brani del libro di Carroll si sovrappone a volte ironicamente a volte tragicamente alle vicende narrate: Alice che si butta dietro la siepe all’inseguimento del bianconiglio “senza neppure darsi la pena di chiedersi come diavolo avrebbe fatto a riuscirne”: così come forse è una buona dose di incoscienza, al di là di ogni tentativo di incasellamento ideologico - maoisti o anarchici, trotzkisti o leninisti - a spingere i giovani del settantasette ad esserci, in qualche modo. Alice che interrogata dal Bruco non sa dire chi lei sia, Alice che sa di essere nel paese delle meraviglie a occhi chiusi, “sebbene sapesse che bastava riaprirli e tutto sarebbe ripiombato nella grigia realtà”, grigia come il grigio delle catene, della repressione, delle pallottole degli anni di piombo.

La fine della favola è emblematicamente la fine dell’innocenza di una generazione.

“Mai più rivolta, se non sarà divertente”: la frase che chiude il film è un grido di ribellione, beffardo e irriverente, è la riaffermazione del valore dell’ironia contro la stupidità delle armi puntate contro i microfoni della radio, contro ogni repressione che tolga voce a chi non chiede se non uno spazio possibile di diversità.



Il trasloco (Italia/1991)

di Renato De Maria (’72)


Possono essere i luoghi, a volte, a raccontare le storie. Quando diventano custodi di memorie individuali e collettive rievocate con atteggiamento scevro, per fortuna, da nostalgie e reducismi spazzati via da uno sguardo vivacemente ironico, ed autoironico. Il trasloco, via Marsili 19 è il primo lungometraggio di Renato De Maria, da lui stesso prodotto. Il trasloco è un film bizzarro e intelligente sospeso tra documentario e fiction.

 “Un film di rapina”, lo definisce il protagonista Franco “Bifo” Berardi narrando divertito del furto della pellicola, nato in occasione del trasloco dal vasto appartamento di Berardi nel cuore di Bologna, punto di riferimento delle più significative esperienze artistiche e politiche “di rottura” degli anni settanta e ottanta del capoluogo emiliano, luogo da cui prese avvio anche la breve avventura di Radio Alice . E’ la lettura dell’ingiunzione di sfratto - la voce fuori campo è quella dello stesso Bifo - ad aprire la pellicola, mentre la macchina da presa indugia sui luoghi della casa con inquadrature fisse. Mura scalcinate che lasciano trasparire dalla mano di intonaco bianco le tracce dipinte di scenari e templi del lontano -forse non troppo - oriente; stanze semispoglie non fosse che per le centinaia di volumi stipati su essenziali scaffali di metallo, la catena arrugginita dello sciacquone, un drago dipinto sulla parete. E mentre i due bolognesissimi operai della ditta di trasloco ammassano casse di libri scrivanie e reti di letti Berardi prende la parola per celebrare “il grande funerale” della casa e di un’epoca - e in qualche modo per liberarsene. Il racconto di Bifo e degli altri inquilini o ospiti di passaggio di questa sorta di “comune” dove ogni privacy è bandita fanno riemergere, all’interno di una storia privata, una memoria collettiva. La forza evocativa del racconto restituisce il sapore di una stagione della vita irripetibile, del giovanile senso di “precarietà e tumulto felice” senza mai scadere, lo ripetiamo, in melense nostalgie da laudatores temporis acti. E il settantasette diventa il discrimine, lo spartiacque che segna il climax e l’esaurirsi di quell’esplosione di energie creative la cui tensione ed intensità non potevano essere mantenute senza tradire se stesse.Il settantasette dell’ultima rivoluzione proletaria del secolo, dei movimenti espansivi, della rivoluzione possibile decreta con il suo esaurirsi premonitore il disumano di cui diventano simbolo le immagini del primo bombardamento su Baghdad - la madre di tutte le battaglie - sulle quali il film si chiude.
Un’ultima, singolare notazione: il film fu presentato all’allora direttore di rai tre Angelo Guglielmi che ne propose la messa in onda la notte di Natale del 1991, la stessa in cui il discorso di Gorbaciov alla nazione decretava la fine del comunismo.

La fine anch’essa di un’epoca.


Materiali sul ‘77 (Italia/1977)

del gruppo Dodo Brothers

Si deve alla pazienza e tenacia di Guido Chiesa e all’appoggio economico della Fandango di Domenico Procacci (produttore di Alice è in paradiso e di Lavorare con lentezza) il recupero quasi miracoloso nei laboratori newyorkesi di questo materiale filmico, per 27 anni rimasto chiuso in bobine sporche e rigate, incrostate di tempo e polvere. Si tratta di brevi filmati della durata di 15 minuti circa girati dagli orfani di Radio Alice, dai pochi almeno che erano rimasti fuori dal carcere. La voglia di raccontare e raccontarsi è ancora viva, così come la necessità di utilizzare canali comunicativi nuovi quali potevano essere, all’epoca, i video.

 

Così, con lo stesso spirito pionieristico e un po’ incosciente che già li aveva guidati all’epoca dell’avventura radiofonica, Andrea Ruggeri, Giancarlo “Ambrogio” Vitali e altri “videoteppisti” del collettivo fondatore di Alice si danno un nome, Dodo Brothers, imbracciano l’enorme Super8 e un pesantissimo registratore da 8 kg per raccontare il dopo, e ciò che ne rimane. Il primo filmato, Ciao mamma ciao papà fu commissionato al gruppo dalla seconda rete Rai: la richiesta era quella di un video in cui Radio Alice si raccontasse, l’occasione delle riprese quella del convegno sulla violenza e la repressione tenutosi a Bologna dopo la guerriglia del marzo 1977. Di fronte alla richiesta di tagli che ne epurassero le parti che più si prestavano alla propaganda politica i Dodo Brothers opposero una ferma resistenza ottenendo che il filmato fosse mandato in onda nella sua versione integrale. Una censura qualsiasi sarebbe stata ridicola, anche in tempi in cui l’occhiuta sorveglianza e la censura rizzavano le antenne ad ogni possibile rischio di sovversione e voce “contro” (e che la storia si ripeta senza essere maestra di nulla l’attualità ci dà tristemente conferma). L’intervistatore, microfono alla mano, raccoglie in piazza i commenti sul convegno (“settantamila partecipanti” ha cura di ricordarci poco dopo il giovane che seduto in cima alla torre degli asinelli legge la lista dei nomi dei compagni in carcere: “noi sappiamo contarci, per voi i numeri sono soltanto opportunità politica”); c’è il barista che dà la sua benedizione perché i giovani sono educati e non fanno casini e perché i guadagni ne risentono positivamente; c’è il giornalista appena arrivato da Londra, che poco mastica di italiano e non capisce ciò che gli si chiede e - si suppone -nemmeno quello che sta succedendo; c’è la casalinga con la borsa della spesa in mano che loda chi sta coi comunisti. E ancora quelli di Radio Alice che si incatenano in piazza, il padre partigiano in mezzo ai giovani che ha il figlio in carcere da sei mesi, accusato tra le altre cose di essere amico di Bifo. C’è “l’unico ufficio del Comune in cui non si fanno code”, dove un ragazzo invita ad autodenunciarsi per Alice. E poi i versi sconnessi di chi si ritrova col microfono sotto al naso, l’entusiasmo, le canne, i tamburi e le trombe i cortei, il tumulto felice.

 

Da Bologna a Milano, l’incursione stavolta è in uno spazio chiuso, quello del Macondo di Mauro Rostagno, centro sociale e “stazione marittima” in una città dove il mare lo si può solo immaginare.

Macondo: svendita del ‘68, il titolo del video. C’è una breve intervista a Rostagno che spiega come nelle sue intenzioni Macondo debba essere un luogo di scambio e “svacco”, dove parlare, di sesso e ragazze soprattutto, e dove magari accasciarsi stremati, dove soddisfare tutti i bisogni non primari, tutto ciò che il quotidiano impone di accantonare. La “svendita” del titolo è un’asta organizzata all’interno del locale per accaparrarsi un manifesto di un “padre” del sessantotto che dopo mille spropositati rilanci si conclude col rogo del manifesto tra gli applausi e le risate degli astanti. Il video si chiude su una carrellata di titoli di giornali: il Macondo sotto sequestro, i fondatori arrestati con l’accusa di far circolare droga all’interno del locale. Ancora una volta bavaglio e celerini.

 

Roberto Freak Antoni, leader degli Skiantos protagonisti dell’altro video Skiantos alla camera, scomoda durante l’incontro a fine proiezione l’esperienza del Living Theatre per raccontare il marasma di quello che è in assoluto il primo video di un concerto del gruppo punk demenziale bolognese. La “rottura dello spazio tra spettatore e attore” si realizza nella sala stretta e sguaiatamente rumorosa del concerto dove la band sfoggia abiti femminili e labbra vistosamente truccate “per far emergere in tutta la sua drammaticità il problema dell’assenza delle ragazze” ai tempi di un femminismo che non concede spazio a compromessi. Prendersi in giro, ironizzare su di sé per allontanare ogni tentazione dottrinale. Le immagini che abbiamo nella memoria hanno il sapore dell’innocenza e dell’ironia, certo in parte data, per ammissione degli stessi protagonisti, da una sostanziale ignoranza linguistica del mezzo. Ci sembra una bella lezione in un’epoca come la nostra dove troppo spesso la leggerezza è solo imbecillità e vacuo e non lo spazio necessario, il balzo agile per guardare il mondo con sguardo più profondo.

 

Link su KMX:

LAVORARE CON LENTEZZA
 

 

SITO UFFICIALE