
Postilla a Netmage
Il coniglio nel cappello
L’andamento ondivago della vita culturale petroniana ha imboccato un curva
decisamente discendente. L’amministrazione “cinese” non ha inciso sul triste
moto parabolico introducendo delle pericolose cadute nella gora del
proibizionismo. Netmage, creatura Xing, “International Live-Media Festival”,
sembrava possedere il potenziale tale da aspirare a consolidarsi come una
delle poche iniziative ancora fertili in una città che per il resto ha
perseguito la desertificazione culturale, sospingendo fuori dal proprio
perimetro attivo i centri sociali (a parte l’ottimo superstite, ma forse non
per molto, l’XM-24), le case occupate, i live club ed in generale ogni
elemento fautore di una qualche scintilla vitale in nome dell’everyman
locale: quel Don Abbondio proprietario immobiliare e forte elettore.
Netmage si pone l’arduo compito di pescare le ultime novità “live-media” dal
serbatoio internazionale per coniugarle ad un effetto d’incubazione e
rilancio delle realtà artistiche cittadine. Così gli perdoniamo anche
volentieri l’astuto abbinamento ai giorni di Arte Fiera: Netmage,
fantasmagoria dell’arte in vendita! Devo rilevare allora la fastidiosa
tendenza, da parte dell’organizzazione, d’impiegare un certo grado
d’ambiguità lessicale nel compilare i programmi profilando la possibilità,
come in un numero di prestidigitazione, dell’appetitosa “epifania” di un
personaggio illustre allo scopo di attirare gente (per sineddoche:
biglietti). Nessuno accusa nessuno: sono certo sia perfettamente lecito
presentare un evento come performed by mettendo sullo stesso piano la
presenza in carne ed ossa, la registrazione o la differita. Mi riferisco a
quello che è stato presentato inizialmente come
Eyerophany (ed ora invece
si chiama: Eyeland Empire…
l’avevo letto solo io, o sono un visionario?). L’intento dell’iniziativa era
qualcosa come: restituire la complessità dello sguardo contemporaneo sul
reale, ostentare uno sguardo ferito e modulato dalla coalescenza
inestricabile dei domini più disparati: l’immagine mediata e processata, la
memoria audiovisiva, l’immagine in presenza, etc… In soldoni l’esperienza “Eyerophany”
si è tradotta in una festa mesta dove ad un certo punto vengono
sguinzagliati qua e là un manipolo di personaggi vagamente ispirati ai
protagonisti dei film di David Lynch: un guitto imbiaccato, una
spogliarellista sbavata di rossetto, una performer che s’aggrappava alle
colonne ed un energumeno in costume da rapinatore. I suddetti personaggi si
ammucchiano in un angolino. C’è uno che li riprende con una telecamera, e la
telecamera ne restituiva i primi piani sgranati ad un megaschermo. Tra
accordi liquidi badalamentiani, epifania di Enrico Ghezzi popstar, schermi
disseminati per la sala che trasmettono l’ultimo film di Lynch qualche
ingenuotto nel frattempo si stava ancora chiedendo con un fantozziano filo
di voce: ma c’è poi il Maestro? verrà, poi, il Maestro?
No, il Maestro non verrà: oplà! è rimasto nella fodera del cappello da
prestigiatore. Ci sono stati casi analoghi nella storia dello spettacolo che
risalgono ai tempi in cui il cinema, quando il cinema era un medium dai
confini nomadi e privo di un’istituzione fondata, ricorreva
parassitariamente al prestigio di contesti più consolidati. Ed allora ecco
che i proprietari delle sale potevano giocare sull’ambiguità del verbo
“apparire” millantando ad esempio di esibire dal vivo un divo del
music-hall, un Little Tich o un Harry Lauder, salvo poi a limitarsi
ovviamente a sfoderarne la mera immagine “cinematografata”. Pur nell’abisso
che separa quel periodo dal nostro devo rilevare che si è diffusa ed è stata
proficuamente alimentata, a scopi non per tutti benefici, un’analoga
confusione su cosa sia un “evento artistico”. Con la de-frammentazione dell’ancorabilità
dell’evento, dovuta agli strumenti dell’audiovisivo digitale, ad uno “stato
solido” identitario, la confusione aumenta. Se la forma fluens
dell’iniziativa era quella di emulare la condizione dello spettatore
contemporaneo intento ad interpretare la farràgine degli input che lo
investono il risultato mi pare più il frutto di una strategia di marketing
che di una ricerca artistica. Ma del resto l’arte, diceva Dino Formaggio, “è
tutto ciò che gli uomini (e chi stacca i biglietti NdA) chiamano
arte”.

INLAND EMPIRE
di David Lynch
USA/Polonia/Francia, 2006, 172'
Il festival bolognese NETMAGE (25/27 gennaio) ha offerto anche quest’anno ai
suoi appassionati frequentatori un pout purrie di opere in cui arti e
tecniche digitali si incontrano proficuamente, in cui le più esilaranti
sperimentazioni dell’avanguardia figurativa si muovono sinuosamente al ritmo
di musica elettronica e non solo. Non citeremo tutte le performances e gli
eventi della manifestazione. Una basti per tutte, quella forse più
chiacchierata, a ragione o non, che reca in sé nomi importanti: EYEROPHANY,
opera a più mani firmata da Emiliano Montanari, con la collaborazione di
Enrico Ghezzi, David Lynch, Angelo Badalamenti.
Ma non è di questo che vogliamo parlarvi.
Non ci dilungheremo sulla sua efficacia, né tantomeno sui tentativi di
elevare ad opera collettiva qualcosa che proviene esclusivamente da un
cinema visionario che non merita di circolare (e di essere fruito) al di
fuori del suo circuito originario. Ancora di più se a contaminarlo sono
coloro che tentano di interpretarlo...
Quello che qui ci interessa invece è l’opportunità che il festival ci ha
dato di vedere (rivedere per chi ha avuto la fortuna di essere a Venezia) in
anteprima alla sua prossima uscita nelle sale il 9 febbraio, l’ultimo parto
filmico lynchiano, INLAND EMPIRE.
Una donna bionda (Laura Dern) è chiamata a recitare in un film che è un
remake dagli sfortunati antecedenti (i primi attori erano morti in strane
circostanze). Un’altra donna bionda (ancora Laura Dern) guarda se stessa
prendere parte al film e coinvolgersi in una storia d’amore clandestino con
Justin Theroux (l’altro attore protagonista) confondendo il film con la
realtà. Intanto una bruna con un cacciavite piantato nelle viscere dice di
essere stata ipnotizzata per uccidere qualcuno (e chi sarà mai se non ancora
la bionda di cui sopra?..). Ancora un’altra Laura Dern, sboccata e violenta
nell’eloquio, fugge da un marito folle e pericoloso. Infine una giovane
donna polacca guarda tutta la vicenda in un televisore, si commuove mentre
vede tornare suo marito e suo figlio e li abbraccia teneramente. Sullo
sfondo una famiglia di uomini con teste da coniglio (Rabbits, ricordate la
famosa striscia telematica firmata da L.?) abitano un comune appartamento
scambiandosi affermazioni dalla logica incomprensibile.
Se dovessimo riassumerla potremo vederla anche così la trama dell’ultimo
film del regista del Montana. Un insieme di storie, apparentemente
scollegate, che in realtà appartengono ad un unico filo conduttore:
l’inconscio e lo scambio identitario, totale, continuo, in cui tempi e spazi
collidono fino ad annullarsi e scoprire di essere identici. Nastro di
Moebius, oggetti frattali, fisica quantistica, quanti esegeti affollano
recensioni e libri di termini simili, circoscrivendo il veduto nella gabbia
asettica del senso compiuto, dimenticando che il buco nero della mente
sovente si colora di sfumature, flussi, passioni irrazionali o semplicemente
avulse da gni forma di linguaggio (significazione, intesa come rapporto
significante/significato). Non è la prima volta che il regista ci sottopone
a ripetuti stress narrativi impedendo una visione netta e diacronica delle
vicende. Il punto è che con Lost Highway e Mulholland Drive forse ancora
riuscivamo a ritagliare qualcosa di vagamente somigliante ad un plot, diviso
in due segmenti, i cui protagonisti restavano gli stessi ma le vicende
prendevano, per così dire, pieghe diverse. Qui invece siamo di fronte a una
serie multipla di trame e situazioni, il doppio diventa triplo, e quadruplo,
il che confonde ulteriormente le acque chete della classica interpretazione
cartesiana, e lo spettatore più ingenuo (o quello più incazzato, che di
solito odia furiosamente Lynch aggiungendosi alle file di detrattori spinti
a lanciare pomodori a fine di ogni proiezione..), dipanandosi senza
consequenzialità in un turbine di sensazioni e lampi emotivi fino
all’epilogo (che tarda ad arrivare con ben 172 minuti di girato).
Ebbene, il risultato è stato raggiunto. Inutile ripetersi nelle solite
battute, capolavoro, minchiata, delirio visivo o quant’altro. Ciò che conta
è che il film sia una sola cosa: Lynch e basta. Un immaginario lucido e
criptico al tempo stesso, in cui una donna soffre, ama e ha paura, insegue
ed è inseguita, tenta di capire e non capisce, crede e non crede, si dispera
e muore, ma dopo tutto questo fuggire qualcuno vive attraverso di lei i
medesimi turbamenti, e noi con loro, in un continuo transfert dallo schermo
alla platea. Espressionista e supremo, ma soprattutto libero stavolta di dar
sfogo alle proprie sperimentazioni più forti avvalendosi dell’agilità del
mezzo digitale che, se da un lato priva la grana dell’immagine di quell’effetto
patinato cui eravamo piacevolmente abituati, regala tuttavia anche la
possibilità di creare a piacimento effetti e sovrapposizioni più coerenti
con l’artificio dei pixel.
Grazie a Netmage per averci fatto gustare quest’ultimo delirio
anti-Hollywoodiano, e per ulteriori commenti rimandiamo alla prossima uscita
nelle sale del film.
Bologna, 09:02:2007 |