NETMAGE 07

International Live-Media Festival

 

25/27:01:2007

BOLOGNA

di Chiara ARMENTANO, Davide GHERARDI

 

Postilla a Netmage
Il coniglio nel cappello

L’andamento ondivago della vita culturale petroniana ha imboccato un curva decisamente discendente. L’amministrazione “cinese” non ha inciso sul triste moto parabolico introducendo delle pericolose cadute nella gora del proibizionismo. Netmage, creatura Xing, “International Live-Media Festival”, sembrava possedere il potenziale tale da aspirare a consolidarsi come una delle poche iniziative ancora fertili in una città che per il resto ha perseguito la desertificazione culturale, sospingendo fuori dal proprio perimetro attivo i centri sociali (a parte l’ottimo superstite, ma forse non per molto, l’XM-24), le case occupate, i live club ed in generale ogni elemento fautore di una qualche scintilla vitale in nome dell’everyman locale: quel Don Abbondio proprietario immobiliare e forte elettore.
Netmage si pone l’arduo compito di pescare le ultime novità “live-media” dal serbatoio internazionale per coniugarle ad un effetto d’incubazione e rilancio delle realtà artistiche cittadine. Così gli perdoniamo anche volentieri l’astuto abbinamento ai giorni di Arte Fiera: Netmage, fantasmagoria dell’arte in vendita! Devo rilevare allora la fastidiosa tendenza, da parte dell’organizzazione, d’impiegare un certo grado d’ambiguità lessicale nel compilare i programmi profilando la possibilità, come in un numero di prestidigitazione, dell’appetitosa “epifania” di un personaggio illustre allo scopo di attirare gente (per sineddoche: biglietti). Nessuno accusa nessuno: sono certo sia perfettamente lecito presentare un evento come performed by mettendo sullo stesso piano la presenza in carne ed ossa, la registrazione o la differita. Mi riferisco a quello che è stato presentato inizialmente come Eyerophany (ed ora invece si chiama: Eyeland Empire… l’avevo letto solo io, o sono un visionario?). L’intento dell’iniziativa era qualcosa come: restituire la complessità dello sguardo contemporaneo sul reale, ostentare uno sguardo ferito e modulato dalla coalescenza inestricabile dei domini più disparati: l’immagine mediata e processata, la memoria audiovisiva, l’immagine in presenza, etc… In soldoni l’esperienza “Eyerophany” si è tradotta in una festa mesta dove ad un certo punto vengono sguinzagliati qua e là un manipolo di personaggi vagamente ispirati ai protagonisti dei film di David Lynch: un guitto imbiaccato, una spogliarellista sbavata di rossetto, una performer che s’aggrappava alle colonne ed un energumeno in costume da rapinatore. I suddetti personaggi si ammucchiano in un angolino. C’è uno che li riprende con una telecamera, e la telecamera ne restituiva i primi piani sgranati ad un megaschermo. Tra accordi liquidi badalamentiani, epifania di Enrico Ghezzi popstar, schermi disseminati per la sala che trasmettono l’ultimo film di Lynch qualche ingenuotto nel frattempo si stava ancora chiedendo con un fantozziano filo di voce: ma c’è poi il Maestro? verrà, poi, il Maestro?

No, il Maestro non verrà: oplà! è rimasto nella fodera del cappello da prestigiatore. Ci sono stati casi analoghi nella storia dello spettacolo che risalgono ai tempi in cui il cinema, quando il cinema era un medium dai confini nomadi e privo di un’istituzione fondata, ricorreva parassitariamente al prestigio di contesti più consolidati. Ed allora ecco che i proprietari delle sale potevano giocare sull’ambiguità del verbo “apparire” millantando ad esempio di esibire dal vivo un divo del music-hall, un Little Tich o un Harry Lauder, salvo poi a limitarsi ovviamente a sfoderarne la mera immagine “cinematografata”. Pur nell’abisso che separa quel periodo dal nostro devo rilevare che si è diffusa ed è stata proficuamente alimentata, a scopi non per tutti benefici, un’analoga confusione su cosa sia un “evento artistico”. Con la de-frammentazione dell’ancorabilità dell’evento, dovuta agli strumenti dell’audiovisivo digitale, ad uno “stato solido” identitario, la confusione aumenta. Se la forma fluens dell’iniziativa era quella di emulare la condizione dello spettatore contemporaneo intento ad interpretare la farràgine degli input che lo investono il risultato mi pare più il frutto di una strategia di marketing che di una ricerca artistica. Ma del resto l’arte, diceva Dino Formaggio, “è tutto ciò che gli uomini (e chi stacca i biglietti NdA) chiamano arte”.
 

 


INLAND EMPIRE
di David Lynch
USA/Polonia/Francia, 2006, 172'


Il festival bolognese NETMAGE (25/27 gennaio) ha offerto anche quest’anno ai suoi appassionati frequentatori un pout purrie di opere in cui arti e tecniche digitali si incontrano proficuamente, in cui le più esilaranti sperimentazioni dell’avanguardia figurativa si muovono sinuosamente al ritmo di musica elettronica e non solo. Non citeremo tutte le performances e gli eventi della manifestazione. Una basti per tutte, quella forse più chiacchierata, a ragione o non, che reca in sé nomi importanti: EYEROPHANY, opera a più mani firmata da Emiliano Montanari, con la collaborazione di Enrico Ghezzi, David Lynch, Angelo Badalamenti.
Ma non è di questo che vogliamo parlarvi.
Non ci dilungheremo sulla sua efficacia, né tantomeno sui tentativi di elevare ad opera collettiva qualcosa che proviene esclusivamente da un cinema visionario che non merita di circolare (e di essere fruito) al di fuori del suo circuito originario. Ancora di più se a contaminarlo sono coloro che tentano di interpretarlo...
Quello che qui ci interessa invece è l’opportunità che il festival ci ha dato di vedere (rivedere per chi ha avuto la fortuna di essere a Venezia) in anteprima alla sua prossima uscita nelle sale il 9 febbraio, l’ultimo parto filmico lynchiano, INLAND EMPIRE.
Una donna bionda (Laura Dern) è chiamata a recitare in un film che è un remake dagli sfortunati antecedenti (i primi attori erano morti in strane circostanze). Un’altra donna bionda (ancora Laura Dern) guarda se stessa prendere parte al film e coinvolgersi in una storia d’amore clandestino con Justin Theroux (l’altro attore protagonista) confondendo il film con la realtà. Intanto una bruna con un cacciavite piantato nelle viscere dice di essere stata ipnotizzata per uccidere qualcuno (e chi sarà mai se non ancora la bionda di cui sopra?..). Ancora un’altra Laura Dern, sboccata e violenta nell’eloquio, fugge da un marito folle e pericoloso. Infine una giovane donna polacca guarda tutta la vicenda in un televisore, si commuove mentre vede tornare suo marito e suo figlio e li abbraccia teneramente. Sullo sfondo una famiglia di uomini con teste da coniglio (Rabbits, ricordate la famosa striscia telematica firmata da L.?) abitano un comune appartamento scambiandosi affermazioni dalla logica incomprensibile.
Se dovessimo riassumerla potremo vederla anche così la trama dell’ultimo film del regista del Montana. Un insieme di storie, apparentemente scollegate, che in realtà appartengono ad un unico filo conduttore: l’inconscio e lo scambio identitario, totale, continuo, in cui tempi e spazi collidono fino ad annullarsi e scoprire di essere identici. Nastro di Moebius, oggetti frattali, fisica quantistica, quanti esegeti affollano recensioni e libri di termini simili, circoscrivendo il veduto nella gabbia asettica del senso compiuto, dimenticando che il buco nero della mente sovente si colora di sfumature, flussi, passioni irrazionali o semplicemente avulse da gni forma di linguaggio (significazione, intesa come rapporto significante/significato). Non è la prima volta che il regista ci sottopone a ripetuti stress narrativi impedendo una visione netta e diacronica delle vicende. Il punto è che con Lost Highway e Mulholland Drive forse ancora riuscivamo a ritagliare qualcosa di vagamente somigliante ad un plot, diviso in due segmenti, i cui protagonisti restavano gli stessi ma le vicende prendevano, per così dire, pieghe diverse. Qui invece siamo di fronte a una serie multipla di trame e situazioni, il doppio diventa triplo, e quadruplo, il che confonde ulteriormente le acque chete della classica interpretazione cartesiana, e lo spettatore più ingenuo (o quello più incazzato, che di solito odia furiosamente Lynch aggiungendosi alle file di detrattori spinti a lanciare pomodori a fine di ogni proiezione..), dipanandosi senza consequenzialità in un turbine di sensazioni e lampi emotivi fino all’epilogo (che tarda ad arrivare con ben 172 minuti di girato).
Ebbene, il risultato è stato raggiunto. Inutile ripetersi nelle solite battute, capolavoro, minchiata, delirio visivo o quant’altro. Ciò che conta è che il film sia una sola cosa: Lynch e basta. Un immaginario lucido e criptico al tempo stesso, in cui una donna soffre, ama e ha paura, insegue ed è inseguita, tenta di capire e non capisce, crede e non crede, si dispera e muore, ma dopo tutto questo fuggire qualcuno vive attraverso di lei i medesimi turbamenti, e noi con loro, in un continuo transfert dallo schermo alla platea. Espressionista e supremo, ma soprattutto libero stavolta di dar sfogo alle proprie sperimentazioni più forti avvalendosi dell’agilità del mezzo digitale che, se da un lato priva la grana dell’immagine di quell’effetto patinato cui eravamo piacevolmente abituati, regala tuttavia anche la possibilità di creare a piacimento effetti e sovrapposizioni più coerenti con l’artificio dei pixel.
Grazie a Netmage per averci fatto gustare quest’ultimo delirio anti-Hollywoodiano, e per ulteriori commenti rimandiamo alla prossima uscita nelle sale del film.

 

Bologna, 09:02:2007