16.MO FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO
20-26/03/2006

MILANO

di Marco BRUNELLI

 

L'edizione del Festival del Cinema Africano (da un paio d’anni anche d’Asia e America Latina) tenutasi quest’anno a Milano si è contraddistinta per una maggiore qualità globale e per una varietà intrinseca superiore che era stata forse il tallone d’Achille delle edizioni precedenti. Oltre alle categorie storiche,  quest’anno è stata aggiunta la sezione Rage in Usa IV,  sulla carta una panoramica selettiva sulle produzione del cinema afro-americano dal 1996 a oggi,  che però ha dovuto pagare l’assenza di pellicole di cartello sicuramente più influenti rispetto a quelle presentate.

 

Mentre lo scorso anno il film di richiamo era stato il vincitore del Festival di Berlino U-Carmen eKhayelitshaquest’anno la competizione poteva contare addirittura sul fresco Vincitore del Premio Oscar per il Miglior Film Straniero Tsotsi. La storia del leader di una gang di giovani di Johannesburg (basata su una piéce teatrale di Athol Fugard del 1960)  è in fin dei conti la classica parabola di caduta e redenzione già portata sullo schermo in tutte le sue possibili varianti.
Ciò che in questo caso eleva la pellicola é però il vivace stile narrativo adottato dal regista Gavin Hood (qui al suo terzo lungometraggio) che, coadiuvato dalla fotografia suntuosa di Lance Gewer e da una colonna sonora particolarmente orecchiabile, dona alla storia quella freschezza che per certi versi riporta alla mente il brasiliano City of God.

 

Particolarmente convincente per il sottoscritto l’iraniano Poet of the Wastes (vincitore del premio del pubblico, che probabilmente meritava qualcosa di più) di Mohammad Ahmadi, pregevole coproduzione nippo-iraniana già presentata durante la scorsa edizione del Goteborg Film Festival: un netturbino aspirante poeta trova nei rifiuti abbozzi di poesie di un autore recluso e lettere che una donna scrive regolarmente al fratello lontano. Spacciando le poesie trovate per sue, il giovane cercherà di conquistare la ragazza facendo in modo che essa possa trovare ogni giorno qualcosa da leggere.

Partendo dal presupposto che “La spazzatura di una persona è il tesoro di un’altra”, la pellicola farsi riesce nel difficile intento di parlare di poesia in modo lirico e per nulla banale.

L’immagine della neve che scende sopra i tetti di Teheran mentre scorrono i titoli di coda, con l’accompagnamento delle deliziose musiche di Dalir Nazarov, è una di quelle che rimangono impresse per molto tempo nella mente dello spettatore, e divertenti scene come quella del flashback del colloquio di lavoro hanno un sapore tragicomico che ben si adatta alla riuscita ricetta del film.

 

Notevole anche il cinese Sheng Sis Jie (Vite perdute), di Li Shaohong. Già vincitore del passato Tribeca Film Festival e arrivato secondo nella competizione per il miglior lungometraggio, il film risulta incredibilmente coinvolgente nella rappresentazione di una storia d’amore destinata a finire in tragedia, e soprattutto nella riuscita rappresentazione della Cina contemporanea (e in particolare dei suoi squallidi sobborghi) con tutte le sue contraddizioni e lati oscuri.

Molto interessante anche il senegalese L’Appel Des Arenes di Cheick N’Diaye: uno spaccato sull’importanza della lotta considerato non soltanto sport nazionale e tradizione storica, ma anche e soprattutto come filosofia di vita dalle profonde implicazioni sociali.

Fra i sudamericani spiccano Como un Avion Estrellado di Ezequiel Acuna fra i lungometraggi e il venezuelano El Viejo Y Jesus: Profetas De Rebellion di Marcelo Andrade Arreaza fra i documentari.

 

Nella Sezione Cortometraggi meritatissimo il successo del sudafricano And There in The Dust di Lara Foot Newton e Gerhard Marx: un creativo lavoro d’animazione che combina effetti "old school" come la stop-motion resa celebre da Harryhausen con la più sofisticata CGI, per denunciare l’orribile storia vera di un infanticidio che scosse un intero Paese nel 2001.

Molto stilizzato anche  il tunisino Tsawer di Nejib Belkadhi, storia delle vicissitudini di una futura sposa alle prese con le foto di un amore passato che fatica ad andarsene, mediante  vignette che rimandano alla pop art anni ’60 ed effetti speciali artigianali ma efficaci.

Fra i documentari colpisce la coproduzione fra Sudafrica e Uganda di Rape for Who I Am di Lovinsa Kavuma, che ci mostra come nelle Township di Johannesburg le donne omosessuali siano vittime di incondizionati pregiudizi che le considerano malate e peccaminose, e di come siano conseguentemente vittime di riprovevoli violenze a sfondo sessuale.

 

Da sottolineare il tributo a Sotigui Kouyaté, una delle più grandi e carismatiche personalità della cultura africana contemporanea e non. Attore (presente anche in produzione americane ed europee di un certo spessore, non ultima la breve apparizione in Dirty Pretty Things di Stephen Frears), compositore, ma anche e  soprattutto uno dei più grandi fautori dell’importanza della cultura Griot (ovvero la trasmissione orale nella storia dei popoli africani), l’artista è stato il protagonista di diverse pellicole di genere, fra cui il simpatico Black Mic Mac di Thomas Gilou (commedia “sociale” che narra delle avventure di un ispettore dell’ufficio d’igiene alle prese con i mille problemi della burocrazia francese).

 

In sostanza si è trattata di una manifestazione riuscita che ha dimostrato ancora una volta quanto errati siano i facili luoghi comuni che vedono la cinematografia africana come di serie B e inferiore alle produzioni continentali “a priori”. La sedicesima edizione del Festival ha semmai dimostrato come il cinema africano (e di conseguenza i suoi autori principali) sappia imparare dai propri errori (basti pensare ai passi da gigante compiuti rispetto a un film apprezzato come Le Médecin de Gafire del 1986).

In quanto a tecnica infatti, molte delle pellicole presentate non hanno avuto niente da invidiare rispetto a produzioni ben più blasonate (anche rispetto a film presenti oggi nelle sale italiane) e hanno dimostrato anzi un’inventiva e un sottotesto politico e sociale troppo spesso sottovalutato nel cinema commerciale. Seppure non sia ancora lecito parlare di una vera e propria “new wave” come quella che colpì l’industria asiatica alcuni anni fa, non si può negare che la strada che le nuove generazioni di artisti africani stanno percorrendo sia quella corretta.

Purtroppo il pubblico italiano sembra ancora diffidente (come dimostra il flop di U-Carmen eKhayelitsha, presentato lo scorso anno al Festival e poi coraggiosamente proposto nelle sale con scarso risultato) nei confronti di quello che è purtroppo ancora un tipo di cinema poco studiato e troppo poco considerato all’estero.

Si spera che il Premio Oscar a Tsotsi non si traduca nel solito fuoco di paglia passeggero, ma che invece porti a una riscoperta di un cinema che si è deciso ingiustamente di lasciare nell’oblio. Ma come sempre, ahimè, l’ardua parola non può che essere lasciata ai posteri…

 

Milano,  01:04:2006