16.MO
FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO MILANO |
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La panoramica offerta dal Festival del Cinema Africano è quest’anno particolarmente ricca e varia, tanto che risulta difficile parlare di un cinema africano, quando ogni singolo paese in concorso dimostra di avere le proprie specificità. Forse è proprio questo, il pregio della manifestazione: rende merito alla varietà delle filmografie riunite dall’appartenenza ad un medesimo continente, al di là di facili stereotipi o generalizzazioni. Alle cinematografie africane sono poi state affiancate quelle d’Asia e America Latina (e infatti il nome corretto della manifestazione è Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina), operazione che, in via del tutto personale, reputo opinabile, in quanto riunisce delle realtà così lontane, accomunate unicamente dal discutibile rimando al concetto di Terzo Mondo (non a caso, in questo senso, il Giappone è stato rappresentato unicamente da una coproduzione iraniana). In ogni caso, si diceva, la rassegna ha goduto di un programma particolarmente consistente, offrendo in aggiunta alle categorie dei lungometraggi, dei documentari e dei cortometraggi in concorso, un’ampia panoramica sulla cinematografia africana, comprensiva di titoli di prestigio quali il sudafricano Tsotsi, premiato di recente con l’Oscar al Miglior Film Straniero, la rassegna Rage in USA IV, sul cinema afroamericano dal 1996 ad oggi, ed un omaggio al musicista, attore e regista teatrale Sotigui Kouyaté. L’impressione globale è quella di una grande ricchezza creativa e realizzativa, a dispetto di qualsiasi preconcetto su quello che potrebbe essere considerato un “cinema povero”. Molte sono le opere di pregnanza sociale, senza che manchino per questo pellicole d’intrattenimento o di pura narrazione della quotidianità. I segnali di maggiore fertilità arrivano forse dal Sudafrica, paese a sé stante all’interno del continente, non a caso quello in cui i contrasti e le contraddizioni sono più forti.
Il Concorso Lungometraggi Finestre sul Mondo, il più prestigioso del Festival, se l’è aggiudicato la coproduzione franco-maghrebina La petite Jerusalem, di Karin Albou, storia di due sorelle ebree di origini tunisine che vivono nella banlieue parigina, rese incapaci di vivere passioni e sentimenti da una religiosità oppressiva e totalizzante. Il film ha una sua grazia particolare, ma altre pellicole avrebbero potuto ambire al premio, come ad esempio L’appelle des arenes, sullo sport della lotta in Senegal, o l’originale Poet of the wastes (insignito comunque del premio del pubblico), storia di uno spazzino che impara a conoscere la gente dai loro rifiuti e si innamora di una donna dopo averne trovata una lettera nella spazzatura.
Il Concorso cortometraggi africani è stato invece vinto dal sudafricano And there in the dust, di Lara Foot Newton e Gerhard Marx, esempio unico di come sia possibile trattare di un tema straziante quanto lo stupro e l’assassinio di un neonato, alleggerendolo attraverso il ricorso a tecniche miste di animazione e stop-motion. Allo stesso modo, un altro notevole cortometraggio, L’ami y’a bon di Rachid Bouchareb, affronta un argomento difficile come il massacro coloniale di Thiaroye ricorrendo ad un’essenziale animazione in bianco e nero.
Il Concorso documentari Finestre sul Mondo vede invece premiato l’israeliano Just Married di Ayelet Bechar, che racconta le difficili vite di un palestinese sposato con un’israeliana e di un israeliano sposato con una palestinese, costretti a vivere il proprio amore tramite l’esilio o la clandestinità.
Il premio al miglior lungometraggio africano va all’algerino Barakat! di Djamila Sahraoui, intensa vicenda di due donne maghrebine alla ricerca del marito giornalista di una delle due, sequestrato a causa dei suoi articoli impegnati, mentre la menzione al miglior documentario africano se la aggiudica Quelques miettes pour les oiseaux di Nassim Amaouche, che mostra la vita sospesa di Ruwayshed, ultimo avamposto giordano prima della frontiera irachena. Un’ultima nota, al di là dei premi, riguarda la giovane età di molti dei registi che hanno presentato le loro opere al Festival del Cinema Africano, spesso ventenni o trentenni, elemento che lascia ben sperare in una nuova generazione di registi provenienti da parti del mondo che spesso e volentieri, in ambito cinematografico, vengono a torto dimenticate. Milano, 27:03:2006 |